Il palcoscenico come una seduta terapeutica, il pubblico che si trasforma in mezzo per esplorare la propria anima, alla ricerca di un senso di appartenenza difficile da interpretare. Per Nicoletta Maria Loisi, attrice nata in Germania da genitori emigrati dalla Lucania, il percorso non è stato semplice. Anche perché a complicarle le cose ci si è messa di mezzo la decisione, della sua famiglia, di tornare in Italia e stabilirsi in Toscana. A sbrogliare la matassa, ci ha pensato, in un certo senso Dario Fo. L’incontro con il premio Nobel e con sua moglie Franca Rame ha fatto scoccare la scintilla: un’opera di Fo, tradotta nel lucano, il dialetto dei genitori, traccia un percorso per Nicoletta che, portando in giro quella versione della Parpaja topola, ottiene consensi e riconoscimenti. Ma soprattutto trova le risposte che cercava.
Da questo percorso nasce “La Basilicata esiste”, una commedia brillante che, con la regia di Chiara Riondino sta portando in giro insieme ad Andrea Vagnoli: una tournée estiva in Lucania, il 14 settembre una replica alla Settimana Lucana a Firenze e poi, pronti per portarla nei teatri d’inverno e nelle piazze la prossima primavera.
Cos’è “La Basilicata esiste”?
E’ un incontro tra due attori, una lucana e un fiorentino, con le loro personalità, i loro orgogli regionali. Un lavoro scritto con Andrea Vagnoli e Chiara Riondino che ne ha curato anche la regia. E’ un po’ il percorso della mia vita, un vagare alla ricerca del senso di appartenenza. Ma è un lavoro che ruota anche intorno al tema dell’emigrazione. Quella massiccia degli anni settanta quando si intraprendeva un viaggio consapevoli di andare verso situazioni migliori.
Com’è nato?
Dalla voglia di sfatare pregiudizi e luoghi comuni, ma anche dalla voglia di raccontare un popolo, una regione attraverso brani di film e di romanzi che la raccontano. E ovviamente, dalla voglia di divertire e divertirci, perché si tratta di una commedia brillante, con un finale a sorpresa.
Questo arriva dopo la traduzione, in lucano, della Parpaja topola di Dario Fo.
Un lavoro che mi ha dato tante soddisfazioni, che ha vinto un premio nazionale, a Sarzana, dove grazie a un cortometraggio, sono stata premiata come migliore attrice. Ma anche un lavoro che mi ha dato alcune risposte a quesiti esistenziali, che mi portavo dentro da sempre.
Vale a dire?
Un senso di appartenenza che non ho avuto, complice anche la mia storia personale. Sono nata in Germania, da genitori lucani che erano andati là per lavorare. Ho vissuto lì i primi anni di vita, fino a quando mia madre e mio padre non decisero di tornare in Italia, scegliendo la Toscana come luogo per proseguire la loro esperienza di vita. Potete immaginare quale rivoluzione ho vissuto dentro di me: radici tedesche, lucane e poi toscane… Un caos.
E come lo ha affrontato?
Cercavo una unità che non avevo. Allora ho deciso di muovermi, di viaggiare. Per la mia famiglia era la normalità. Quando ho detto a casa che andavo via, non ho trovato alcun ostacolo. Dovevo capire qual era il mio posto. Soprattutto dov’era. E’ stato un cammino che mi ha permesso di riavvicinarmi, piano piano alla famiglia, ai luoghi: sono andata in Germania, a Berlino, poi in Inghilterra.
C’è stato un momento preciso in cui ha realizzato che quel percorso stava raggiungendo il traguardo sperato?
Non un momento, ma forse un mezzo: il teatro. Il primo problema che ho avuto è stato quello del linguaggio: avevo imparato il tedesco nei primi anni di vita, a casa sentivo parlare i miei genitori in dialetto lucano, oltre a molte parole tedesche. E poi arrivati in Toscana s’è aggiunto il fiorentino. Ma quello del teatro era un’idea fissa. A sei anni ho deciso, dentro di me, che volevo fare l’attrice.
E il palcoscenico, alla fine, è arrivato.
A 14 anni ho cominciato a frequentare il Laboratorio teatrale empolese. Erano i primi esperimenti, le lezioni erano gratuite. Ero la più piccola del gruppo. Ci fu anche l’esperienza di una compagnia. In seguito, sempre con la voglia di vivere nell’ambiente dello spettacolo, ho fatto un corso d operatrice culturale. Ma le persone che mi conoscevano, le amiche, mi dicevano che avrei dovuto insistere, perché avevo le corde giuste per poter recitare. Ho frequentato l’Accademia teatrale a Firenze e Nello stesso tempo ho conosciuto Chiara Riondino: nei luoghi della Valdelsa, dove vive, faceva azioni teatrali.E anche lei mi ha spinto sempre più a calcare il palcoscenico.
Ma il colpo di fulmine è arrivato … altrove.
Durante un seminario fatto con Dario Fo e Franca Rame. Sentii recitare la Parpaja topola. Mi piacque. Mi procurai il testo e non riuscivo a staccarmene. Ricordo di averlo letto anche durante il viaggio di ritorno a casa da quel seminario. Lo sottoposi a Chiara. Le disse che avrei voluto recitarlo. E cominciammo a metterlo in cantiere. Ma, ahime, la lingua si rivelò un ostacolo.
Facile da immaginare: una ragazza che lotta dentro per capire se è più toscana, lucana o tedesca che si cimenta con il dialetto lombardo…
Non avevo i ritmi giusti, capimmo subito che avrei dovuto abbandonare il progetto. Ma a questo punto scattò la scintilla: perché non la traduciamo in lucano? mi disse Chiara. E partimmo…
Non dev’essere stato facile.
No, ma questo mi è servito per avvicinarmi alla famiglia, alle radici che, in loro, erano più chiare: per tradurre alcuni vocaboli mi sono appoggiato a mia sorella Elena. Ho chiesto la consulenza di parenti, amici, famiglie lucane che conoscevo. Con loro ho fatto la revisione del testo. Risultato? Al di là delle soddisfazioni professionali, ho capito che, una volta pacificata la parte lucana che covava in me, avevo appacificato tutto.
E adesso?
Con quest’ultima commedia brillante abbiamo già fatto alcune rappresentazioni estive in Basilicata. Adesso l’abbiamo proposta per i prossimi cartelloni primaverili. Ci divertiamo. Chi viene a vederci, si diverte.