“E’ tempo che la pietra accetti di fiorire, che l’inquietudine abbia un cuore che batte. E’ tempo che sia tempo”. Sono in questi versi di Paul Celan le motivazioni che hanno spinto Mimmo Sammartino a scegliere un nome come Pietrafiorita, un ossimoro, per il luogo dove ha ambientato il suo ultimo romanzo. Pietrafiorita è “Il paese dei segreti addii(Hacca edizione), un luogo d’Appennino, immaginario, che potrebbe essere ovunque, dalle Langhe all’Aspromonte.

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”: sono questi altri versi di Cesare Pavese a completare il quadro. Pietrafiorita è un luogo-non luogo. Un paese dell’interno che l’autore, per radici, colloca nella sua Basilicata. Ma puo’ essere allo stesso tempo la Fontamara di Silone o la Macondo di Marquez. E’ un posto da cui fuggire ma anche un luogo dove ritornare, dove trovare una rinascita. “Il paese dei segreti addii” è un romanzo corale, abitato da vinti che sono anche vincitori: antieroi li definisce l’autore del romanzo che comincia con un mistero proprio nella mattina di Natale. Un mistero (un rivolo scarlatto come sangue che scorre sulla neve) che si rivela solo nel finale. Nel mezzo ci sono le storie di Michele lo sciancato, che ha perduto le gambe nella battaglia del Don, di Catafero, l’ubriacone che vede gli angeli, di Cataldo, lo scemo del villaggio, che però coltiva la bellezza e salva pure il paese, di Rosina, donna generosa, in grado di donare amore a chi ne ha bisogno, del prete Ammèn e del maresciallo Merluzzo, uniti dal loro odio condiviso verso gli uomini e il mondo.  E poi c’è Geremia, capace di sentire come premonizione – attraverso il canto di un usignolo (lo stesso che è prigioniero di una palla di vetro sulla copertina del libro di Sammartino) – le vibrazioni che portano con sè la morte, le partenze e gli arrivi. E’ innamorato di una donna che è costretta a farsi suora perché la famiglia contrasta la relazione; si accoppia anni dopo – quand’è creduto morto in un incendio – con una nipote di quella donna, che ne porta lo steso nome: con lei ha due figli, Tobia che annega sotto gli occhi del fratello e Habel che, per espiare questo rimorso parte e poi torna, dopo essere scampato alla tragedia di Marcinelle, nelle miniere in Belgio. Pietrafiorita è un paese fuori dal tempo, dove però la storia – quella maiuscola – fa capolino e arriva con un suo carico di dolore che coinvolge, singolarmente gli abitanti.

Questa è Pietrafiorita: un microcosmo che Sammartino non ha definito geograficamente ma che  somiglia un po’ a quei luoghi che tanti hanno immaginato come cornice ai racconti che i nonni facevano, intorno al focolare nelle sere d’inverno.

Al Paese dei segreti addii è stato assegnato il premio Levi 2017 che verrà consegnato a Mimmo Sammartino – scrittore e giornalista lucano, originario di Castelmezzano ma  che vive e lavora a Potenza – il 9 dicembre ad Aliano.

Una delle questioni del suo romanzo è lo spopolamento delle piccole realtà dell’entroterra. Quante Pietrafiorita ci sono in Basilicata?

Il tema dello spopolamento riguarda drammaticamente la Basilicata perché parte da una situazione di svantaggio: era meno popolata di altri contesti territoriali. Qui assume rilievi maggiori, ma tocca tutta l’Italia dell’interno. Riguarda l’Appennino, dalle Langhe all’Aspromonte, ai Monti Iblei. C’è un’idea , secondo me sbagliata,dello sviluppo del Paese: il modello di riferimento è la città, l’area metropolitana. Giusto, bene che ci ssiano queste realtà. Ma non si riesce a pensare quello che Carlo Levi, in occasione della seconda edizione del suo Cristo si è fermato a Eboli, in una lettera a Einaudi, il suo editore,  definiva “l’importanza di scoprire l’esistenza come coesistenza”, come molteplicità di mondi e realtà. Lo spopolamento non ci cade dal cielo. In Basilicata negli ultimi sedici anni sono andati via trentamila residenti. Nei prossimi vent’anni si pensa che il fenomeno possa interessare altri duecentomila lucani. Sono numeri già falsati: i miei figli, ad esempio, risultano residenti in Basilicata ma vivono fuori per lavoro o studio.

Perché si va via?

Intanto credo debba poter essere conveniente e attraente restare in un territorio come questo. Invece esiste un problema di opportunità di mettere a frutto i talenti, le capacità, le competenze acquisite, c’è carenza di lavoro, c’è una politica progressiva di spoliazione dei servizi e dei presidi sociali e istituzionali sul territorio. Se i diritti di cittadinanza di un bambino che nasce nei nostri paesi sono attenuati rispetto a chi vive in un centro metropolitano è evidente che si crea una situazione di disincentivo a restare. Tutto questo significa impossibilità di mettere a valore le risorse, il patrimonio di bellezza che, badate bene, per la Basilicata non riguarda solo Matera: abbiamo una varietà di luoghi che hanno importanti riferimenti di storia, di cultura e archeologia. Tutto questo non viene riconosciuto, valorizzato e tutelato. In questo scenario, c’è la fuga: si va via dai luoghi dell’abbandono, della dimenticanza per cercare di mettere a valore la propria vita, le proprie capacità. Il viaggio, però, non è una negatività: quando diventa un sradicamento obbligato è un fatto negativo che nel breve periodo è mortificante per chi va via, in prospettiva è un suicidio per un paese. In futuro avremo realtà metropolitane sovraffollate e ingestibili e trequarti del Paese, il suo interno, in stato di abbandono. Penso che dovremmo pagarli quelli che resistono sulle montagne: finché ci saranno loro, ci sarà la cura del territorio della quale si avvantaggeranno anche in pianura. Saranno sentinelle naturali del territorio. Se volessimo misurare con la logica economica questo fenomeno, direi che alla distanza è una perdita.

I personaggi del Paese dei segreti addii, però, ritornano

Il ritorno di Habel, uno dei due figli di Geremia, è un interrogativo aperto: può esistere una terra di ritorno? Chi è partito, quando torna è la stessa persona o è diventata diversa? E il luogo che si è lasciato è lo stesso luogo di quando siamo partiti o è cambiato pure esso?

A dare queste risposte può aiutare la distanza?

Certo, aiuta anche nella scrittura. Tutti abbiamo un senso di appartenenza: c’è un legame sentimentale con un mondo che senti che è anche la tua realtà. Per poter raccontare Pietrafiorita, che poi è il luogo della mia infanzia,  ho avuto la necessità di trovare una distanza che mi ha aiutato a riconoscere certe cose. Appartenenza e distanza sono i due punti che mi hanno permesso di trovare le parole per raccontare quel mondo e lo sguardo per poterlo narrare.

Cos’è il viaggio per lei?

Intanto una metafora dell’esistenza. Nelle storie che in qualche modo hanno ispirato la mia scrittura, i racconti di tradizione orale di cui mi sono nutrito da bambino perché la narratrice era mia nonna, molte vicende erano rappresentate da un viaggio segnato da alcune prove, riti iniziatici, una sorta di rappresentazione paradigmatica della vita, il viaggio è il cammino che ognuno compie ogni giorno, anche stando fermo.

I suoi personaggi sono dei vinti?

Ho immaginato questa storia d’appennino, dove uno dei personaggi fondamentali è il luogo, un luogo del margine, della dimenticanza. Sullo sfondo ci sono riferimenti che inquadrano gli eventi: la battaglia del Don, l’8 settembre, l’occupazione delle terre, la tragedia di Marcinelle. Sono fatti che entrano nel quotidiano come un’eco portando, però, anche i dolori. I personaggi inconsapevolmente fanno parte di una sorta di sacrificio rituale che si compie in questo romanzo corale. Li vedo come antieroi: sono vinti e invincibili allo stesso tempo. Sono figure che non hanno potere: sia il maresciallo che il prete sono figure che cercano di vendicare le proprie sfortune facendo pagare il prezzo a chi gli sta attorno, ma loro stessi sono vittime del loro mondo. Immagino la loro invincibilità così come l’ha descritta Margherita Yourcenar in Memorie di Adriano che fa raccontare ad Adriano – che assiste alla sconfitta dopo che il suo esercito aveva dato l’assedio – la resa degli uomini che si erano opposti a lui nella fortezza di Betar: Vidi uscire uno a uno gli ultimi difensori della fortezza, smunti, laceri e orrendi e tuttavia magnifici come tutto ciò che è indomabile. Geremia è un simbolo di questa invincibilità: è  l’uomo che non s’arrende nonostante un destino avverso, ha una vita dura, piena di lutti, di perdite, però prova a ricostruire la casa, a metter su la vigna e a far vivere ancora questa costruzione sulla cresta di Pietrafiorita dove il paese continua a confinare con le nuvole basse. Ma anche le figure più diseredate, da Cataldo a Catafero, da Rosina e Michele al Mago Mingo, alla fine sono quelli che riescono a portare delle sorprese, ciò che non ti aspetti: ognuna di queste porta vita, porta futuro. Catafero vede gli angeli, ciò che non avevano visto gli altri; Rosina grazie al menzognero mago Mingo si incontra con Michele lo sciancato, che ha perso le gambe in battaglia e che trova la vita proprio tra le gambe di Rosina.

Il mago è una figura ricorrente nelle storie del nostro Sud

Ernesto De Martino in Sud e Magia racconta la storia di un mago realmente esistito: Giuseppe Calvello,  il Ferramosca, che è di Castelmezzano, il mio paese. Sapeva fare, era furbo, curava in una casa nel bosco, soprattutto fanciulle. Anche in questa indole truffaldina, però, i maghi come il mio mago Mingo erano gli unici insieme ai preti disposti ad ascoltare i dolori della gente, erano gli psicoterapeuta dei poveri. Mingo, pur truffando Michele lo sciancato, quando gli fa sentire la voce della madre defunta, crea le condizioni per cui può nascere l’amore tra Michele e Rosina.

Emilio Chiorazzo

 

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