Quando l’amore non ha limiti. Né confini: Felicia affronta un viaggio di oltre settanta giorni, da un paesino lucano alle valli cilene, oltre la cordigliera delle Ande, per andare a ritrovare l’uomo che ama, suo marito, partito un anno prima per andare a trovare lavoro.
Due giorni da Palmira a Napoli, 40 giorni di nave da Napoli a Buenos Aires, 2 giorni di treno da Buenos Aires a San Martin, 24 giorni di mulo attraverso le Ande da S. Martin(Argentina) a Valparaiso(Cile), 7 giorni di veliero da Valparaiso a Iquique. Attraversa le Ande su un mulo, con la bambina in braccio per tutta la cordigliera delle Ande. L’animale per molti tratti viene bendato perché non veda i dirupi. Il capo della carovana consiglia a Felica di non proseguire. Ma lei imperterrita e determinata va avanti. Questo il percorso compiuto da Felicia. Un viaggio epico. Che a Iquique è ricordato anche da un monumento: un mulo con in groppa una donna e una bambina. E’ il monumento all’emigrazione. Quel “viaggio straordinario” Vito Marone, artigiano e appassionato di storia locale, di Oppido, l’ha raccontato in un libro dove narra anche l’epopea dell’immigrazione lucana del secolo scorso.
“Vado prima io, poi voi appresso a me”. Con questa promessa Vito Sciaraffia aveva convinto la moglie Felicia Muscio, a lasciare il paese – Palmira, oggi Oppido Lucano – e con esso la povertà e la miseria di quei giorni e andare a cercare fortuna altrove. Vito parte col fratello Antonio, verso le Americhe. Felicia rimane con la figlia Maria Rosa, di tre anni e con un altro figlio in grembo. Si erano sposati nel 1887, Maria Rosa era nata quattro anni dopo. La promessa era che l’anno dopo sarebbe tornato a riprendersi moglie e figli. “Troverò il modo di scriverti, troverai la maniera per leggere”, dice Vito a Felicia. Sono entrambi analfabeti. Quando arriva in California, Vito trova un lavoro. Antonio prosegue verso il Perù. Dopo un po’ però, Vito decide di raggiungere il fratello e, insieme, di esplorare nuove terre: Iquique, in Cile, è il loro traguardo. Ci sono miniere di salnitro, c’è lavoro. Ci sono tanti immigrati italiani.
Intanto Felicia aspetta, a casa, notizie dal marito. La prima lettera arriva dopo 4 mesi. La donna va dal parroco a farsela leggere. Ed è il prete a scrivere la risposta. E a scriverne altre, prima ancora che Felicia, abbia risposte dal marito. Quando nasce il figlio lo chiama Benedetto, come aveva chiesto il marito, nell’unica lettera spedita alla moglie. E’ il nome di suo padre, vuole onorarlo. La miseria si fa sentire, le malattie pure. In quel periodo la mortalità infantile è alta: in estate muoiono anche più di trenta bambini in un mese. Uno al giorno. E’ il triste destino che tocca anche a Benedetto, che muore a 14 mesi. Felicia è disperata. Il dolore la fa reagire: “Parto, vado a trovare mio marito”. Ma la donna non è mai stata oltre Palmira, non sa com’è il mondo fuori da quel paese. E non sa neppure dove si trova il marito. Vende alcune terre per racimolare i soldi per il viaggio e parte. Da Palmira raggiunge Napoli con un carretto trainato da cavalli. Un commerciante pugliese di tessuti dà un passaggio alle due donne. Da Napoli, col piroscafo, vanno a Buenos Aires: 40 giorni in nave, in terza classe. Conoscono un mercante di legname di stigliano che viaggia in prima classe e presta loro la cabina: possono lavarsi. Possono anche mangiare un po’ di cibo migliore di quello che distribuiscono in terza classe. A Buenos Aires Felicia prende un treno che, dopo due giorni di viaggio, la porta a San Martin. Qui la donna si trova davanti le Ande, da superare. I mercanti organizzano carovane di una ventina di persone che, a dorso di mulo scalano le montagne e si dirigono verso le valli cilene. Lei ne affitta uno, in groppa con lei c’è anche la figlioletta di quattro anni. Affronta dirupi, tragitti impervi, il maltempo. Ventiquattro giorni, per raggiungere la meta: Valparais. E non è finita: servono altri sette giorni di veliero, per arrivare a Iquique, dove dovrà cercare il suo Vito. Ottiene un passaggio su una imbarcazione che trasporta il tabacco. Quando arriva vorrebbe chiedere dove trovare i lavoratori stranieri, gli italiani, per cercare suo marito. Ma s’accorge che non conosce una parola di quell’idioma e che non riesce a farsi capire.
Il destino vuole che incontri un prete che conosce l’italiano. Le indica un locale dove, la sera, dopo il lavoro, si ritrovano gli stranieri. Va lì davanti con la figlia. Aspetta. Ha i brividi addosso al solo pensiero che potrà rivedere il suo Vito. Quando se lo trova davanti stenta a riconoscerlo: non ha più i baffi, non ha più neppure il fisico possente che aveva quand’era partito da Palmira. Indossa abiti polverosi. La donna ne riconosce gli occhi. “Sei tu?Sei Vito?” chiede. E poi si abbracciano. A lungo, in silenzio.
Vito aveva messo in piedi una ditta che trasportava acqua nel deserto, per rifocillare gli operai del salnitro.
Con l’arrivo di Felicia la famiglia si ritrova. Alla coppia nascono altri tre figli: Maria, Berta e Vittorio. Ma il destino è beffardo: nelle baracche dove vivono scoppia un incendio. I bambini sono soli in casa. Maria Rosa riesce a salvare Berta, non Maria (Vittorio non è ancora nato). Il tetto crolla sulla culla e la piccola muore. Vito e Felicia, che erano al mercato a vendere latte, cadono in un nuovo profondo dolore.
Dopo la guerra il salnitro va in crisi. Vito, Felicia e Vittorio decidono di tornare a Palmira. Qui, ancora una volta il destino ci mette lo zampino: Vito muore, colpito da un fulmine durante un temporale. Felicia torna in Cile dalle figlie, dove morirà, a 71 anni, malata di cancro.
La storia l’ha raccontata Vito Marone nel suo “Felicia, cronaca di un viaggio straordinario” che ha presentato a fine gennaio 2018 a Santiago del Cile, in un evento organizzato da un’associazione di lucani, in gran parte originari di Tolve. E a Iquique, dove ancora vivono un migliaio di persone originari di Oppido Lucano. Nel teatro dov’è avvenuta la presentazione del libro, c’erano autorità italiane e locali. Ma anche un nipote di Felicia, il figlio di Maria Rosa.
Marone, come ha conosciuto questa storia?
Nel 2006 con alcuni amici sono andato a Iquique a trovare un nostro compagno che l’anno prima si era trasferito lì per lavoro. Entrando in città, lungo la strada che porta all’aeroporto, c’è una rotonda, con una scultura scolpita dall’artista calvellese Masini. E’ lì dal 2001, quella rotonda si chiama Oppido lucano. Chiesi di che si trattava e mi raccontarono quella storia. Mi piacque. Dissi subito: appena torno in Italia, farò ricerche su questa donna.
E’ il frutto di una ricerca, dunque?
E’ una storia vera. E per verificarne i contorni ho fatto ricerche all’archivio di Stato, in biblioteca nazionale. Ho finito di scriverla nel 2016.
Cosa l’ha colpita di più della storia di Felicia?
Il momento in cui lei decide di attraversare le Ande su un mulo con una bambina di 4 anni, lungo sentieri con strapiombi di cento metri, a quattromila metri di altezza. E poi la storia d’amore: Felicia non si rassegna, a differenza di altre. Prima, quando partivano gli uomini, lasciando le donne a casa, difficilmente si rivedevano più. Non s’arrende: non vuole sottostare a questa logica. Analfabeta, parte verso l’incognito. Non era mai stata oltre i paesi vicino al suo. Affronta abitudini e lingue diverse. Spinta dall’amore. Dalla volontà di ritrovare suo marito.
Bravo Marone!
Iniziativa ed impegno encomiabili. Hai reso onore alla vera storia degli umili e degli emigrati dal Sud. Trattandosi di storia d’amore e miseria con protagonista una giovane donna, la tua narrazione risulta ancor più straordinaria. Hai reso un grande servigio al nostro “natio borgo selvaggio” arricchendo la storia oppidana con una vicenda umana dai contorni come tu dici “epici ed eroici”.