“Nei suoni delle nostre radici c’è tutto, il difficile è saperlo far emergere”. Rocco De Rosa, musicista, compositore, pianista, sintetizza così il senso delle sue composizioni, della sua ispirazione: E’ di Oppido Lucano, anche se vive da sempre a Roma. Quel che vuol sottolineare è che quella musica è “genuina”, diretta: ha già dentro di sé le contaminazioni delle culture con cui ha avuto a che fare. Come pure i temi. Scorri i titoli dei suoi brani, li ascolti e scopri che parlano di viaggio, di spostamenti, di emigrazione, di speranze. “Chi è nato, come me, in quegli anni dalle mie parti, comunque assorbe profondamente la realtà drammatica dell’emigrazione, le famiglie spaccate che non si sono mai più ricomposte, il dolore del lasciarsi, la consapevolezza di non rivedere più gli amici. Da ragazzo ho accompagnato alla partenza tanti amici, c’era una sorta di processione quotidiana, tutti in piazza, a piangere chi se ne andava. Il viaggio e lo sradicamento è qualcosa che avverto in tutta la sua drammaticità. Ma c’è anche un aspetto di curiosità, di esplorazione, di scoperta di quanto sia bello, spesso, incontrare altre culture, interagire con esse, conoscerle. Sono aspetti che convivono tra loro. E nelle mie composizioni si sente”.

Per chi è di Oppido Lucano, il problema dell’emigrazione lo conosce bene: c’è un luogo, nel Cile, dove nel passato si è verificato un vero e proprio esodo di oppidesi. E’ Iquique. E Rocco De Rosa ha dedicato a questa località un brano. Che è stato inserito in una compilation della Putamayo, una etichetta di world music,  uscita in America e dedicata all’Italia. “A proposito di questo brano _ racconta il musicista _ nei giorni scorsi mi ha chiamato un signore da Strasburgo, dicendomi che il figlio, ha sentito quella composizione, se n’è innamorato e avrebbe voluto avere la partitura. Pochi giorni dopo, ho ricevuto un’altra telefonata: era un ingegnere, dal Lussemburgo, che mi ha invitato a suonarla nel suo Paese”.

Iquique è un luogo che chi è di Oppido, come lei, conosce bene.

Oggi è anche un comune gemellato. Un posto che conosco da quand’ero bambino: i miei nonni sono stati tutti e due lì. A Iquique, oggi, ci sono più oppidesi e loro discendenti di quanti siano gli attuali abitanti di Oppido.

A Iquique è legata anche una storia antica come quella di Felicia Muscio, la donna che ha viaggiato per oltre settanta giorni per raggiungere suo marito.

E’ diventata una specie di emblema. In molti pensavano di trovare un eldorado. Partivano pensando di trovare un benessere. Ma per tanti fu una tragedia. Gente che non aveva mai visto il mare e che improvvisamente si trova sull’oceano, a vomitare su una nave per molti giorni. Si arrivava a Buenos Aires, si attraversava l’Argentina, si sfiorava il deserto di Atacama per arrivare sul Pacifico. Un viaggio pazzesco, quello fatta da Felicia.

Com’è nata l’ispirazione per comporre Iquique?

La cosa curiosa è che nella mia infanzia Iquique era nominato continuamente, dai nonni, dagli zii. Se ne parlava ovunque. Chiunque aveva un familiare a Iquique. C’era una attività mineraria fervente. Ma in miniera lavoravano gli indigeni, la gente del posto. I lucani si occupavano di altro. Di quello che oggi chiameremmo il terziario: mio nonno faceva il barbiere, c’era il panettiere, il venditore di acqua, tanti artigiani. Io non lo collegavo a un luogo di lavoro, di emigrazione. Per me, da bambino, era un luogo fantastico, lo stesso nome richiamava a questo. Lo immaginavo pieno di colori, di storie. E il brano che ho composto, non ha una sua drammaticità. E’ lieve, leggero, giocoso. Proprio perché legato a quella mia immagine del luogo.

Leggendo i testi delle cose fatte , ricorre molto il tema del viaggio: Trasmigrazioni, Mediterranea, Rotte distratte. C’è il senso dello spostarsi…

Sì ed è un po’ è legato al discorso che facevamo su Iquique. Sono situazioni che nella mia infanzia ho vissuto quotidianamente.

Ha prodotto molto anche per il cinema.

Il rapporto col cinema è stato abbastanza naturale. E’ iniziato con molti registi che prendevano musiche dai miei dischi: è accaduto con Nanni Moretti e con Ermanno Olmi, tra i tanti. Poi ho fatto lavori diretti per  produzioni di cinema, per la televisione e per documentari. Le ultime cose le ho fatte con Pupi Avati, i suoi due ultimi film per Rai Uno hanno mie musiche. Guarda caso, entrambi i film anche se diversi, trattavano il dramma dell’emigrazione di oggi.

Cosa si porta dentro delle sue origini, della sua regione?

Se non avessi avuto il legame che ho col mio passato, con la mia storia e la mia terra non credo che avrei prodotto la musica che ho fatto. Si parla spesso di contaminazioni: questo lavoro io non l’ho mai fatto. Ho lavorato sul mio bagaglio sonoro, musicale, non fatto solo dall’ascolto di musica contemporanea di ogni angolo del mondo. E’ stato molto influenzato dal rapporto stretto coi canti di lavoro e quelli religiosi, con una certa metodicità o ritmiche che hanno forme musicali della tradizione. Ti rendi conto che c’è tutto. Nella tradizione musicale del nostro Sud trovi già tutto: ha assorbito cultura araba, balcanica. Cose che sono già presenti in quelle culture. La contaminazione l’abbiamo già dentro, non è semplice trovarla, farne una sintesi. Molti studiano forme musicali di altre culture, ma non è quello il lavoro che va fatto. Quell’approccio produce cose scolastiche. L’altro percorso è più profondo… Occorre sapersi connettere con la propria cultura musicale, che è quasi genetica.

Quando ha scoperto che questo era il suo mestiere?

Tardi, purtroppo. Ci ho messo un po’ a capire che avevo un mio mondo da esprimere. Facevo cose più pop: suonavo Mango, Avitabile, quel tipo di gavetta che si fa quando si vuole fare musica. Poi mi sono reso contro che non potevo fare musica di altri. Mi impediva di concentrarmi su quello che io sentivo di dover esprimere. Lo inquinava in qualche modo. Ho dovuto fare una scelta che è stata abbastanza tardiva. Avevo trent’anni: il primo disco è del 1994. Non ero proprio un ragazzino.

E adesso cosa sta preparando?

Attualmente sto progettando un disco, un trio, molto inedito: C’è la compresenza di uno strumento colto per eccellenza, il pianoforte che interagisce con l’organetto e i tamburi a cornice, quelli della nostra tradizione: la Tammorra, suonata da uno dei più grandi in Italia, Armando Vacca: un maestro. Era anche nell’orchestra dell’ultimo festival di Sanremo. L’organetto è suonato da Alessandro d’Alessandro, un virtuoso.

 

 

 

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