Ci sono mestieri e professioni che, in letteratura e nel cinema, vengono rappresentati in modo romantico o avventuroso. L’archeologo è uno di questi. Intorno agli studiosi e ai ricercatori del nostro passato sono nate figure avventurose come quella di Indiana Jones nel cinema o di Lara Croft nei video games. “Nella realtà è tutt’altra cosa”, spiega Isabella Marchetta, materana, archeologa, che il suo mestiere lo ha voluto raccontare in un libro: “Quando Lara Croft arrossì: l’ordinarietà straordinaria di un’archeologa”, edito da Altrimedia, casa editrice di Matera (domenica 30 settembre la presentazione a Firenze Libro aperto).

“Nel cantiere la vita non è così avventurosa come quella dei personaggi di cinema e giochi elettronici – racconta l’archeologa-scrittrice – Da qui il titolo del libro: alla fine è Lara Croft ad arrossire. Vedendomi nel cantiere capirà che la sua vita poi non è avventurosa come quella reale”.

Specializzata in archeologia Tardo medievale, Isabella Marchetta ha al suo attivo numerose pubblicazioni scientifiche e vanta partecipazioni a scavi e cantieri sia in Basilicata che in Campania, in Calabria e in Molise.

Si sente più archeologa o scrittrice?

Archeologa. Ho soltanto scritto un libro. Fare la scrittrice è un lavoro vero. La mia formazione è per fare l’archeologa. Quella di scrittrice è una parentesi. Lo considero un esperimento di comunicazione archeologica che ho realizzato utilizzando la forma del racconto.

Ma il suo è un libro interattivo: dieci micro racconti e tanti rimandi, attraverso la rete, a tematiche da approfondire. Insomma un libro moderno nella forma.

Nasce dall’esigenza personale di trovare una chiave comunicativa efficace per raccontare la mia più grande passione, che poi è anche il mio lavoro. Ho visto che la chiave empatica quella della comunicazione passionale era a più immediata e reale per raccontare l’archeologia. Spogliandola dalle sovrastrutture, senza però privarla di contenuti e di concetti. Ci ho provato raccontando il cantiere. Non racconto l’archeologia ma come la vive l’archeologo. Una specie di transfert: ti mostro quel che io vivo e quando faccio l’archeologo e attraverso questo mostro tutto quello che ho imparato.

E per raccontare tutto questo prende spunto da Lara Croft, eroina dei video games.

Tutt’altro. Ho voluto raccontare la realtà dell’archeologia e non l’immaginario come lo raccontano al cinema o nei videogiochi. Il titolo è ironico, allusivo. Nel racconto non c’è traccia di Lara Croft.

L’archeologo ha a che fare soprattutto con il passato: qual è la sua idea di futuro?

L’archeologo ha a che fare con un passato così contemporaneo che diventa futuro, perché il passato è la chiave di lettura del futuro. Non in senso nostalgico. Io cito sempre Tucidide che ci ha insegnato come la storia sia maestra. Non perché gli eventi siano ciclici come disse Gianbattista Vico, ma ci insegna la natura dell’uomo. Guardando il passato e a come l’uomo si è relazionato con gli eventi che si sono susseguiti nel tempo si capisce l’uomo e si può indirizzare il futuro. E’ una specie di chiave psicologica: la storia per comprendere la natura dell’uomo. Quando scavo o quando studio ho sempre un approccio sociologico ai dati, mi piace ricostruire non gli eventi in modo sterile ma l’uomo al cospetto di questi eventi. L’archeologia, dopo tutto, è la conoscenza del quotidiano: ci occupiamo di pentole non di personaggi eccellenti che hanno dipinto quadri o fatto sculture. Ma ci poniamo il problema di quali pentole usava, gli indumenti che indossava,i loro costumi funerari. Il quotidiano, insomma. Ci occupiamo dell’uomo nella sua essenza, non di uomini speciali, geniali, creativi, artisti ma di uomini comuni.

Racconta il cantiere come un microcosmo: cosa rappresenta per lei?

Il cantiere è un catalogo di esseri e vicende umane. Nel cantiere ci sono tutti i tipi di persone, con tutte le professionalità. E’ un confronto allargato: non una riunione tra colleghi di uffici, in cui ci sono bene o male persone che si sono formate per la stessa cosa, lavorano a un progetto identico, hanno istruzione comune, vengono spesso dalla stessa città o dalla stessa area. Il cantiere è uno specchio del reale per quanto è variegato. Una palestra di umanità. Di spirito di osservazione, di competenze e di capacità di relazionarsi.

Sull’osservazione nel suo libro racconta una curiosa teoria: qual è l’ottica dell’archeologia?

L’archeologia, in fondo, è una grande metafora. Di quanto sia necessario un lato slow della vita che ci dia il tempo di osservare, guardare, interpretare e essere guardati. Oggi veniamo guardati molto. Ma solo nella misura in cui noi lo concediamo: penso all’uso del web, del selfie, delle foto. In realtà non siamo mai osservati a sorpresa. Concediamo di essere osservati per come vogliamo che ci vedano. L’archeologia con i suoi tempi, un po’ anacronistici perché sono i tempi della lentezza e della riflessione, diventa metafora: un approccio lento, che guarda e che si fa guardare. Noi siamo lì e tutti ci guardano. Guardano spennellare e magari ci prendono anche in giro. Noi esultiamo per aver trovato stratigrafie complesse e altri vedono solo che abbiamo trovato della terra…

C’è un percorso archeologico lucano poco conosciuto che consiglierebbe?

Per Matera, io consiglio il percorso della preistoria. E’ poco conosciuto, con il villaggio trincerato, il museo Ridola: racconta la storia degli uomini ai suoi albori. E poi c’è anche un percorso delle chiese romaniche: san Giovanni Battista, la Cattedrale, San Domenico, Santa Maria la Vaglia e Palomba, che è pseudoromanica. Sono chiese belle. Raccontano com’è variegata e com’è lunga la storia di Matera. Un percorso fatto di concetti più profondi, non di bellezza da cartolina o da spot. Nel resto della regione un bell’itinerario, che fonda natura e storia, è quello del Vulture melfese, tra castelli (Melfi, Venosa e Lagopesole), le cascate di San Fele, l’area archeologica di Venosa, tra le più belle e la piccola Assisi di Ripacandida, nel Santuario di san Donato. Un altro itinerario bello è quello tra Monte serico, Acerenza, Forenza, Palazzo San Gervasio: sono luoghi da scoprire, aspetti deliziosi e non troppo noti. Sono itinerari al di fuori del consueto.

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