“La parola ‘destino’ è ricorrente nelle tante donne italiane immigrate che ho intervistato. Solo dopo qualche tempo ho capito il significato dell’espressione: “e chist è stat u dis’tin mij”. Il destino! Quella forza superiore e incontrollabile permeava la loro vita quotidiana, dava loro la rassegnazione e la forza di tirare avanti e di non farsi consumare dalla nostalgia e dalla solitudine. Sul ‘destino’ trasferivano la responsabilità della loro vita così lontana dalla madrepatria. E il destino , mi dicevano, nessuno lo può cambiare”.
Scrittrice, già docente di lingua e letteratura Italiana presso la prestigiosa Macquarie University. di Sydney, Presidente dell’Associazione Nazionale “Donne Italo-Australiane” e “Patron di Handital” (madrina dell’associazione di famiglie italiane con figli disabili),vice presidente e direttrice didattica della “Dante Alighieri Society di Sydney”, dove vive da oltre 30 anni. Concetta Cirigliano Perna è stata anche volontaria dei Villaggi Scalabrini (case di riposo per anziani italiani) e autrice di molti libri di didattica della lingua italiana per studenti stranieri, nonche’ di articoli sull’emigrazione. Il suo “Non soltanto un baule” ha vinto numersi premi letterari ed oggi letto in scuole e università americane.
Il suo osservatorio, sull’Italia, sulla sua Regione, la Basilicata (è originaria di San Giorgio Lucano) e sui fenomeni vecchi e nuovi di emigrazione, è privilegiato perché distante e perché frutto di un percorso personale fatto di esperienze dirette e di studi: nei suoi libri racconta le storie di chi ha dovuto lasciare la propria terra per andare in cerca di un destino migliore.
Già, il destino. Ha dichiarato il costante bisogno di dare un senso alla sua vita e a un destino che ha deciso che la sua vita si svolgesse lontano dall’Italia.
Quanto ci sia di ‘destino’ o di scelta ragionata nel mio caso, proprio non saprei dirlo. Certo è che da un minuscolo lembo di Lucania, mi sono trovata giovanissima, a Sydney, 5milioni di abitanti, città cosmopolita, dinamica, un magico connubio tra una natura generosa e l’intelligente opera dell’uomo.Ho seguito mio marito, dirigente di una azienda italiana, con un contratto di 3 anni. Entrambi spinti dall’ entusiasmo giovanile, ma anche dall’opportunità di fuga da un’Italia sonnecchiante. I tre anni sono diventati trenta. Quando il nostro trasferimento ha perso il carattere della provvisorietà, ho capito che solo creandomi degli scopi, al di là di quelli professionali, avrei potuto giustificare questa mia ‘seconda’ vita nell’emisfero sud e dare un senso al dolore che questa scelta ha procurato ai miei genitori. Oggi ci dividiamo tra questi due mondi, che amiamo nella stessa misura. Ci consideriamo molto fortunati.
In che modo ci riesce?
Ho studiato l’emigrazione italiana, una pagina straordinaria della nostra storia contemporanea di cui, sono convinta, ancora non si è scritto abbastanza. Da questi studi è scaturito il libro “Non Soltanto un Baule” (Edizioni Farinelli) un’antologia di storie di emigrazione al cui lancio a New York partecipò Mario Cuomo, l’ex Governatore dello Stato di New York, che, nel suo intervento disse: “ogni emigrante merita un monumento”. E questo è il messaggio che vorrei far giungere soprattutto in Italia dove poco o niente si sa di cosa è stato degli oltre 27 milioni di italiani emigrati tra il 1880 e il 1970. Mi gratifica valorizzare il loro contributo alla crescita materiale e morale dei paesi di accoglienza e alla ripresa economica dell’Italia, grazie alle rimesse. Pochi in Italia sanno che queste, tra il 1945 e il 1960 ammontarono a oltre 2miliardi e quattrocento milioni di dollari americani, una boccata d’ossigeno per un’economia in ginocchio. Così come pochi conoscono il dramma dei matrimoni per procura, delle vedove bianche, dei tanti uomini che, allo scoppio della Seconda Guerra mondiale, sono diventati ‘nemici alieni’ e portati in campi di concentramento. Nella mia veste di presidente dell’Associazione Nazionale Donne Italo Australiane, nata per dare voce alle donne immigrate che non avevano voce, voglio far conoscere il ruolo significativo, sebbene silenzioso e poco narrato, delle donne italiane. Sostengo con convinzione un’associazione di famiglie italiane con figli disabili (Handital). Scrivo articoli e organizzo conferenze in italiano e in inglese, in Australia e in Italia. Ho pubblicato per una casa editrice americana libri di testo per l’insegnamento di lingua e cultura italiana, oggi adottati da molte scuole e università americane. Con la Società Dante Alighieri, di cui sono vicepresidente e con l’Associazione Lucana, insieme a un piccolo esercito di volontari, facciamo emergere la parte migliore del nostro Paese, ‘così bello e così dannato’, come lo definiva Enzo Biagi.
Lontana dal suo Paese ha un osservatorio privilegiato: che visione si ha dell’Italia da fuori?
Chi vive all’estero beneficia della giusta distanza da cui osservare con maggiore obiettività gli avvenimenti italiani ed europei. Il confronto con i giudizi della stampa internazionale, consente di prendere fiato dai condizionamenti di parte che talvolta inficiano l’informazione italiana. Fa male confrontarsi con organi di stampa stranieri che proiettano l’immagine di un’Italia quasi in stato di ipnosi, dove il dibattito politico sembra essere ostaggio di problemi che poco hanno a che fare con la sorte dei cittadini. I nostri governi sono spesso oggetto di derisione. Il cinema e la televisione alimentano una certa cultura popolare e un’immagine distorta degli italiani, che consolida il binomio “italiano=mafioso”: uno stigma che resiste nell’immaginario collettivo e che tanta frustrazione crea negli italiani onesti in giro per il mondo. E da lontano abbiamo capito in anticipo il fenomeno che va sotto il nome di ‘nuova emigrazione’. Già dieci anni fa i giovani arrivavano a frotte. Li riconoscevamo tra i camerieri e i lavapiatti nei ristoranti. Fa male assistere impotenti a questa fuga di circa 150mila giovani all’anno, cifre vicine a quelle degli anni 50. Ma almeno c’erano state due guerre mondiali. L’emigrazione di oggi è stata causata dalla carenza di visione a medio-lungo termine dei governi che si sono alternati negli ultimi 30 anni.
Lei insegna Letteratura Italiana in Australia: che ruolo ha la nostra letteratura in una società così distante e così cosmopolita come quella Australiana.
Durante gli anni di insegnamento alla Macquarie University ho capito che gli stranieri apprezzano, ancor più di noi italiani, il nostro Paese per aver regalato al mondo il meglio che l’intelletto umano possa produrre. Amano l’armonia, la musicalità della nostra lingua e per approfondirla studiano la letteratura, prediligendo autori contemporanei. L’Italia gode di un’ottima reputazione per tutto ciò che concerne il nostro patrimonio culturale. Non c’è malgoverno, corruzione, criminalità organizzata o carenza di servizi che tengano: gli stranieri almeno una volta nella vita in Italia devono andarci. E così scoprono che gli spaghetti, la pizza e il mandolino fanno solo parte del folklore; che l’Italia detiene più della metà del patrimonio dell’Unesco e il 60% del patrimonio artistico mondiale; che il Made in Italy è sinonimo di eccellenza e il cibo non ha eguali nel mondo. Ed è questa l’Italia che le università, le società Dante Alighieri, gli istituti di cultura cercano di promuovere anche attraverso i corsi di letteratura. Il turismo è il primo settore a beneficiarne.
Chi è interessato all’insegnamento della lingua, della letteratura e della cultura italiana?
Sono molti gli studenti di ceppo anglosassone o di altri gruppi etnici, ma la percentuale più alta è rappresentata dai giovani italo-australiani. Rispetto al passato, si iscrivono non più perché forzati dai nonni o genitori, bensì per un desiderio di appropriazione della propria identità. Sono ragazzi che hanno fatto almeno un viaggio in Italia e hanno capito che non hanno nulla di cui vergognarsi, come invece è accaduto alla prima generazione di italo-australiani, imbarazzati dalla coppola del nonno, dallo scialle nero della nonna, dal loro scarno inglese e dai pomodori e melanzane al posto delle aiuole in giardino.
Di recente ha raccontato che, per spiegare chi sono i lucani a chi non li conosce lei ha coniato una definizione, Quiet achievers: silenziosi ma determinati a centrare gli obiettivi che si son prefissi. Come nasce questa descrizione?
Da un’attenta osservazione dei lucani nel mondo e dei risultati raggiunti. Silenziosi, caparbi, tenaci, pazienti (la pazienza di cui parlava Carlo Levi), hanno capito che solo compattandosi avrebbero potuto ‘farcela’. Raramente sono ricorsi al mutuo bancario, per la paura atavica del debito, ma anche per la scarsa conoscenza dell’inglese. Si sono prestati i soldi l’un l’altro, basandosi sulla fiducia. Si sono scambiati prestazioni professionali quando ristrutturavano le case. Una comunità che, senza fragore ma con serietà, umiltà e dignità si è ben integrata, vanta una seconda e terza generazione con ottimi livelli di istruzione. Tutti sono proprietari della prima casa. Insomma il mattone e l’istruzione come vera forma di riscatto dalla povertà da cui sono fuggiti e dallo stato di inferiorità, intrinseco alla condizione di immigrato.
Nel suo lavoro di scrittrice racconta soprattutto storie ed esperienze di emigrazioni: ce n’è una che può essere d’esempio alle nuove generazioni?
Più che storie, che sono troppo complesse per poterne dare solo qualche accenno, riporto tre citazioni. Una è la scritta di un anonimo emigrante italiano che ho letto su una parete del museo dell’immigrazione di Ellis Island (USA), e che recita: “Sono venuto in America perché mi avevano detto che le strade erano pavimentate d’oro. Quando sono arrivato ho capito tre cose: 1. che le strade non erano pavimentate d’oro; 2. che le strade non erano pavimentate affatto; 3. che aspettavano me per pavimentarle.” E poi, sempre nello stesso museo, ho letto un documento della fine Ottocento/inizio Novecento, relativo alla classificazione degli emigranti italiani. Il funzionario scrisse: “Non sono bianchi, ma non sono neppure neri. Eppure accettano qualsiasi lavoro, persino quelli che nemmeno i neri vogliono fare.” Infine un pensiero dello scrittore svizzero tedesco Max Frisch, rivolto, nel 1965, ai troppi connazionali ostili agli immigrati italiani, contro cui avevano scatenato tre referendum: “Cercavamo braccia, sono arrivati uomini.” (da L’invasione degli stranieri). Credo che nessuna dissertazione accademica possa far meglio comprendere gli aspetti più umani, e pertanto universali, dell’esperienza migratoria e incoraggiare un approccio diverso nei confronti dei movimenti ‘umani’ di oggi verso l’ Italia e l’ Europa, che tanto ci terrorizzano.
Che rapporto ha con il viaggio: cos’è per lei?
Ci sono due tipi di viaggio. Quello che risponde alla mia sete insaziabile di scoperta di paesi e popoli, soprattutto quelli distanti dalla mia cultura. E poi c’è il mio ‘viaggio di ritorno alle origini’( titolo del mio prossimo libro). È il viaggio che mi riporta ogni anno a San Giorgio Lucano, a calpestare la terra impregnata di sudore e lacrime di un passato nemmeno tanto lontano. Nei miei ricordi echeggia il rumore degli zoccoli degli asini, il vociare dei tanti bimbi impegnati in giochi semplici ma sani e ri-vedo le donne che sferravano calzettoni di lana durante il loro rientro dalla campagna. Il contrasto con il silenzio e lo spopolamento di oggi è stridente. Ogni anno, riaprire la porta di casa, che una volta scoppiava di vita, rinnova e amplifica la tristezza e la nostalgia per i miei, che non ci sono più. A questo viaggio però non rinuncio. Non voglio rischiare di dimenticare da dove sono partita e voglio che anche i miei figli non lo dimentichino mai.
L’emigrazione dei nostri nonni, dei nostri padri, di noi stessi è differente dal flusso migratorio dei giorni nostri?
Sono diverse le forme di approdo nelle terre di accoglienza. I bastimenti straripanti di emigranti e bauli, che oggi sono quasi romantici ai nostri occhi, impiegavano 32 giorni per toccare la Terra Australis, in condizioni di navigazione ai limiti dell’umano. Nel passato era un tuffo nel buio. Oggi la tecnologia neutralizza in parte il trauma della lontananza. Tuttavia ciò che accomuna queste due fasce di emigranti è la sfida che si stabilisce tra loro e il paese ospitante: vediamo chi ce la fa!
Che rapporto ha con le sue origini? C’è una parola, un cibo, un modo di dire della sua terra dal quale è difficile sottrarsi?
Provo amore e rabbia. Penso che troppo spesso la mia gente si sia assoggettata a forme di assistenzialismo improduttivo e alla rassegnazione. Eppure ne ha prodotto di belle teste, la nostra Basilicata! Io spero molto negli effetti trainanti di Matera, capitale europea della cultura 2019, affinché la nostra regione non rimanga una cartolina antropologica, simbolo di una storia di povertà e sopravvivenza in un territorio ostile e in condizioni abitative di estremo degrado. La nostra cucina contadina, dalla ciambotta, ai peperoni cruschi alla pasta e legumi, ha su di me un’attrazione irresistibile. Non la cambierei mai con ostriche e champagne. Un’espressione che mi è molto cara è ‘a bona crijanza’. Credo che descriva molto bene il perbenismo e il calore di noi lucani.
L’intervista fa comprendere bene cosa sono capaci di fare i Lucani, ed i meridionali in genere, allorquando vengono a trovarsi in un ambiente che permetta loro di esprimere al meglio le proprie capacità fuori dai limiti imposti da secoli di arretratezza e di isolamento. Concetta Cirigliano ne è esempio luminoso!