“Il pagliaccio sentì lo spostamento d’aria urtare il cielo di gomma a spicchi colorati, il riso del pubblico aveva spostato il tendone del circo con la potenza di un gigantesco starnuto. Non era mai accaduto”.
Quel pagliaccio è Aiaccio un ex trapezista del circo Aladin. Inciampa e cade in una pozzanghera di sterco di elefante. Ed è questo che scatena il riso degli spettatori. In quel momento davanti ai suoi occhi passa tutta la sua vita.
Quella vita la ripercorre Biagio Russo, che di Aiaccio è l’autore. Si tratta di un libro pubblicato da Lavieri edizioni e illustrato da Daniela Pareschi.
Biagio Russo è scrittore, giornalista, docente di materie letterarie in un istituto superiore della provincia di Potenza. Vive a Spinoso, ma da una decina di anni si occupa, anima e corpo, all’attività della Fondazione Leonardo Sinisgalli, a Montemurro. Ne è direttore e vicepresidente.
Nel suo libro racconta il circo come una metafora di un piccolo mondo. Con la storia del pagliaccio Aiaccio (che prima era un trapezista, di nome Angel) e della trapezista Gipsy – che arriva da Saintes Marie de la Mer, in Provenza, la capitale dei gitani – della quale Aiaccio si innamora.
Biagio Russo con Aiaccio racconta le sue passioni letterarie e cinematografiche, parla di apparenze e pregiudizi, di amore e di speranza. E lo fa con un linguaggio universale. E’ una fiaba ma non è un libro solo per ragazzi. E’ una novella illustrata, ma le immagini sono, esse stesse, un racconto.
Aiaccio non è letteratura per ragazzi: o meglio, non solo per ragazzi.
E’ un libro che ha l’intenzione di far dialogare tutti, oltre le generazioni e oltre le età.
Perché ha deciso di ambientare la sua storia nel mondo del circo?
Per una serie di motivi, suggestioni di carattere letterario, cinematografico e ricordi di infanzia. Sono molto legato al film Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, dove la prospettiva è completamente ribaltata:ci sono angeli che guardano una Berlino in bianco e nero dall’alto. Loro sono immortali. Uno dei due decide di soffrire e quindi di diventare mortale. Lo fa perché si innamora di una trapezista triste e melanconica che si trova in un circo. Il mio racconto è un po’ un omaggio a Wenders. Ma il circo è anche metafora della vita. Non a caso spesso si ricorre alla frase “Come un circo Barnum” per indicare nani e ballerine; c’è l’idea che tutti recitino una parte, che tutto sia visibile e trasparente. Anche nella moderna cultura dei social c’è questa necessità di essere sempre pubblici, anche se poi bisogna nascondere la propria dimensione intima. Dietro quello che mettiamo in mostra c’è sempre qualcosa di più: come il pagliaccio che deve far ridere ma in fondo è triste.
Come ogni fiaba che si rispetti ha una morale: qual è?
Non bisogna mai perdere l’amore per la vita e pensare sempre che le cose vadano, prima o poi, un pochino meglio. Quando meno te l’aspetti può accadere qualcosa di buono in questa vita che tutti viviamo con difficoltà, con fatica. Ogni giorno abbiamo mille motivi per essere arrabbiati. La novella è rivolta a loro. In fondo, quali sono i veri valori? Quali le cose importanti della vita? In Aiaccio l’amore rappresenta il suo volo, il suo vero volo. Perde l’amore di Gipsy per un incidente ma poi lo ritrova quando è nel punto più basso della sua parabola esistenziale. Si ritrova di faccia in una pozzanghera di sterco. Potrebbe sembrare la fine di tutto ma è proprio in quel momento che inizia il suo percorso di riscatto umano.
Racconta la speranza, ma anche l’amore: che ruolo ha quest’ultima?
Non dobbiamo dimenticare quali sono i valori fondanti di un’esistenza. L’amore sicuramente: nelle relazioni, per le persone, per questa vita che, nel bene e nel male, ci dà la possibilità di fare un’esperienza unica.
Le suggestioni cinematografiche che ha messo nel suo Aiaccio le ha svelate. Quali sono i riferimenti letterari?
Sono legati al fatto che io mi sono laureato con una tesi su “Psicologia del comico e dell’umorismo”. L’idea del pagliaccio che fa ridere e il perché si ride, sono in qualche modo legati tra loro. Mi sono interrogato sul perché una persona che cade fa ridere. Perché genera energia? Secondo Freud sono pulsioni che emergono in maniera istintiva. Si ride senza controllo. Il riso è una punizione sociale. Il pagliaccio fa ridere e suo malgrado. Non avrebbe voluto. Inciampa e ne nasce la gag più forte della sua vita. Il tendone esplode in un boato. All’interno del riso ci sono tante teorie: Pirandello, Bergson, Freud. Tutta la letteratura del riso si contrappone a quella del sorriso che è razionale e gestibile. Il sorriso è qualcosa di fortemente controllato. E’ la maschera che decidiamo di adottare. Il riso, a volte, non riesci a trattenerlo. Se ne ignorano le caratteristiche. Umberto Eco nel suo Nel nome della rosa fa partire tutta la storia da un libro di Aristotele perso, in cui si parla del riso.
Aiaccio è un libro illustrato.
Le illustrazioni sono di Daniela Pareschi. E’ un’artista che vive a Genova. Ha lavorato per anni come scenografa a Cinecittà partecipando a film importanti. Ha fatto, ad esempio, The Passion di Mel Gibson. Con i suoi disegni ha dato una visione felliniana e non didascalica alla storia. Ha creato dei personaggi che sono molto particolari. Non sono belli, diventano piccoli o grandi a seconda dell’importanza che assumono nel testo. E poi ha inserito il suo modo di sentire la storia, con colori terragni e malinconici pur essendo caldi. Ci sono miniature di animali del circo che nella storia non sono presenti, come le giraffine. Ha dato una vera e propria interpretazione, come se avesse costruito un’altra storia che dialoga con il testo. Non ci conoscevamo. E’ merito degli editori Lavieri, che hanno una casa editrice con le radici in Basilicata ma sono una casa editrice qualificata a livello nazionale con titoli tradotti anche in Cina, in Spagna, in Russia e partecipa a fiere importanti che riguardano la letteratura disegnata.
Una storia nella storia, dunque.
Umberto Eco la chiamava la letteratura con le immagini. Io ricordo ancora le copertine delle fiabe che leggevo da bambino. Ricordo Pelle d’asino, il libro Cuore. Mi fermavo davanti a quelle illustrazioni. Costringere le persone a fermarsi mentre legge un testo per vedere le immagini, significa costringerle a leggere con calma, senza fretta. Questo è un messaggio morale, più che tecnico: scovare nei disegni o nella metafora del testo il motivo per una pausa, una sosta; fermarsi un attimo per divagare con il pensiero, pensare anche a qualcos’altro. Non un testo da bruciare subito. C’è una mia metafora che Daniela Pareschi ha trasformato in una immagine stupenda. Nel testo parlo di un bacio e di una sorta di immersione nel teatrino del cuore e lei ha fatto un catino con degli animali che in qualche modo scendono all’interno dell’acqua. Ha trasformato la metafora aggiungendone un’altra.
Lei ha molteplici impegni di natura culturale: insegna, scrive e, soprattutto, si occupa della Fondazione Leonardo Sinisgalli.
E’ il mio impegno maggiore. E’ importante, ha un grande carico di responsabilità. Leonardo Sinisgalli è un personaggio ingombrante. Poliedrico ma ingombrante. La Fondazione è nata quando rischiava l’oblio. E stiamo facendo un grande lavoro. E’ notizia di questi giorni che la Finmeccanica ha deciso di dedicare le sue risorse alla cultura d’impresa, l’immenso patrimonio che ha in parte dilapidato. Andrà a recuperare una tradizione di letteratura industriale nata con proprio con Sinisgalli: nascerà una Fondazione e Luciano Violante sarà presidente. Ma anche la Bocconi e i politecnici sono interessati a Sinisgalli. L’anno prossimo, dopo 40 anni, riporteremo le opere di Sinisgalli nelle librerie e nelle scuole: abbiamo acquistato i diritti per sette anni. E pubblicheremo ben tredici sue opere.