Alimenta la memoria a colpi di pedali. Con la sua bicicletta e i suoi pensieri Giovanni Bloisi viaggia ogni anno per migliaia di chilometri, partendo dalla sua Varano Borghi, a pochi passi da Varese, raggiunge tutti i luoghi che hanno a che fare con la memoria: posti di guerra, di eccidi e di dolore. Con lo scopo di tenere vivi i ricordi, soprattutto nelle generazioni più giovani, a dispetto degli anni che passano e dei suoi che aumentano. Ne ha 64, Giovanni Bloisi: nato a Carbone, in Basilicata, è emigrato con la sua famiglia in provincia di Varese quando di anni ne aveva nove. E da undici, dopo quaranta passati a lavorare alle dipendenze dell’Enel, ha deciso di diventare, come ormai tutti lo chiamano, “il ciclista della Memoria”.
Visita posti che sono stati teatro di eventi tragici, che testimoniano e raccontano vicende tristi, ma anche a lieto fine. Come la storia di 800 bambini ebrei, reduci dai campi di concentramento, accolti e salvati a “Sciesopoli“, una struttura che ha avuto una doppia vita: era nata come colonia fascista, vanto di Benito Mussolini, a Selvino, un paesino vicino Bergamo, nella Valseriana. Una struttura di proprietà del Comune di Milano, che l’opera Balilla del capoluogo lombardo aveva destinato a luogo ricreativo alpino per i “Figli della Lupa”. Era dedicata, nel nome, alla memoria di Amatore Sciesa, aveva campi di calcio e una piscina. Ma fu trasformata in un centro di accoglienza e così riuscì ad accudire quegli ottocento bambini che erano sopravvissuti ai campi di concentramento ed erano arrivati, in gran parte a piedi, da mezza Europa. Accadde nel 1945, subito dopo la Liberazione: la ex colonia di Selvino fu affidata, anche grazie all’opera del Comitato di Liberazione nazionale e di Raffaele Cantoni, antifascista ed ebreo, che ha ricoperto in seguito importanti cariche istituzionali nell’ambito dell’assistenza agli ebrei in Italia, da Ferruccio Parri e dal sindaco di Milano Antonio Greppi alla Brigata ebraica, che ne curò la trasformazione in centro di accoglienza. Quei bambini arrivarono affamati, stanchi, malati e malridotti: furono curati, ebbero da mangiare, poterono giocare e cercare di alleviare i dolori per gli orrori che avevano visto e vissuto. Si rimisero in forze e, nel 1948, furono portati in Patria.
Giovanni Bloisi un anno fa è stato, con la sua bicicletta, in Israele a trovare quegli ex bambini ancora vivi, oggi ottantenni. Ha anticipato, in quell’occasione, l’iniziativa che poche settimane dopo ha avuto il Giro d’Italia di ciclismo, l’edizione numero 101, dedicata a Gino Bartali – Giusto tra i Giusti – e per questo partita, con la prima tappa, proprio da Israele. Bloisi per rendere omaggio a Bartali aveva già ricoperto, sempre a pedali, il tragitto Firenze-Assisi, lo il campione toscano aveva compiuto più volte, nella sua vita, facendo finta di allenarsi ma con l’intento di salvare decine di famiglie di ebrei.
C’è la tragedia della guerra e la storia delle persecuzioni razziali, in quel che fa Giovanni. Ma ci sono anche le belle azioni, spesso silenziose e segrete, compiute dai nostri concittadini, per salvare queste persone. Che lui, con la sua inseparabile bicicletta, cerca di far conoscere agli altri. E’ accaduto anche in occasione dell’ultimo 25 aprile, la festa della Liberazione. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dopo le cerimonie romane, per la prima volta nella storia della Presidenza della Repubblica, s’è recato fuori Roma, per una visita. “E’ stato a Casoli _ spiega Bloisi _ un paesino dell’appennino, in provincia di Chieti, dov’è nata la Brigata Maiella”.
Sapete perché? Mattarella ha conosciuto la storia di questo paese anche grazie al viaggio del ciclista della memoria. “A Casoli c’è un campo di internamento dove furono segregati ebrei, slavi e italiani _ spiega Giovanni Bloisi _ Avevo deciso di andarci all’inizio di aprile. Come sempre il mio amico, lo storico Marco Cavallarin, ha informato un giovane studioso di Casoli del mio arrivo. Quest’ultimo, lo studioso Giuseppe Lorentini che vive in Germania ma si occupa di storia del suo territorio, ha coinvolto il sindaco e altri amministratori per organizzare un evento in occasione del mio arrivo in paese. Lorentini è ideatore e curatore di un progetto di ricerca e documentazione on line, che, proprio grazie all’evento legato al mio viaggio, ha subito un’accelerata: sono stati messi in rete quasi 11mila documenti che si trovavano nell’archivio del Comune, fermi da 70 anni. Il presidente Mattarella, al quale era stato consegnato il libro del mio viaggio in Israele, ha deciso di visitare Casoli in occasione della festa della Liberazione: c’ero anch’io, ero stato invitato”.
Da sempre impegnato nel sociale, Giovanni Bloisi si batte perché il ricordo di quelle storie (ma anche dei luoghi, spesso da recuperare), resti sempre “acceso”. L’ex colonia di Sciesopoli, ad esempio, adesso è in uno stato di degrado e di abbandono. Ci sono tante iniziative per tenere alta l’attenzione su un sito considerato di interesse architettonico e anche storico, oggi non più proprietà pubblica, che rischia di essere devastato: era stato acquistato da un’Immobiliare che avrebbe voluto trasformare l’immobile in un albergo. Il progetto non è andato in porto e lo stabile adesso è abbandonato. Il piccolo Comune di Serino, lo storico e studioso Cavallarin e alcuni dei bambini, oggi adulti, che vi trovarono rifugio nel Dopoguerra, stanno lottando perché quel luogo non sia preda dell’incuria.
“Quello della memoria per me è un tarlo, un pensiero che mi porto sempre dentro – racconta il ciclista – E’ come un mal di pancia, cresciuto negli anni. Sono sempre stato impegnato, nella politica e nel sociale. E mi sono sempre fatto una domanda sulle guerre, che sono tutte inutili e stupide: perché, per quale motivo si fanno? Non ce n’è uno valido. Così ho pensato che fosse necessario non far dimenticare ciò che è successo, ogni giorno dell’anno, oltre la Giornata della Memoria. Dobbiamo ricordarlo sempre, perché la storia purtroppo si ripete”.
Quando è nato tutto questo?
Undici anni fa. Decisi di andare a Carbone, il paese dove sono nato, in bicicletta. In realtà, all’inizio avevo pensato di farlo a piedi quel percorso, perché camminare è un’altra grande passione. L’intero arco alpino, dal Gran Paradiso alla Slovenia l’ho fatto tutto a piedi, nel corso degli anni. Alla fine scelsi la bici. Da lì è nato tutto.
Perché proprio la bicicletta?
Pratico da sempre l’alpinismo, ancora oggi. E la bicicletta è un mezzo per allenarsi, dalle mie parti. Sono due attività che hanno anche un modo identico di vivere e di pensare. Praticando queste attività vediamo le cose in una certa maniera. Io mi ritengo un lento viaggiatore solitario in bicicletta. Ma anche l’alpinismo segue questo pensiero. Ti alleni mentalmente a questo: movimenti lenti, ogni cosa precisa, calibrata, perché non si può sbagliare. E prima di compiere un gesto, occorre pensarci. La bici è poi diventata una passione: dalle mie parti è normale, abbiamo strade adatte a farti innamorare dei pedali. In bicicletta sono stato in India, nel Ladakh, con gli amici: quelle le considero mete turistiche. Impegnative, ma turistiche. Da noi arrivano, pedalando, svizzeri e tedeschi. E in bici si va ai laghi, in campeggio.
Qual è il viaggio che le ha dato di più sotto l’aspetto emotivo?
Difficile dirlo. Ognuno ha una sua emotività, sono tutti viaggi fatti con il cuore. Quello in Israele mi ha permesso di conoscere un mondo che sentivo lontano, distante. Avevo blocchi mentali, anche per errate informazioni personali: ho scoperto un mondo diverso. Ancora oggi di questo viaggio vado a raccontare la storia dei bambini israeliani nelle scuole, nei convegni ai quali mi invitano. Ho fatto quasi tremila chilometri per incontrare gli ex bambini ebrei che furono ospitati nella ex colonia ebraica di Sciesopoli tra il 1945 e il 1948. Aveva organizzato tutto lo storico e docente Marco Cavallarin
La bicicletta, come l’alpinismo è uno sport “solitario”: quali sono i pensieri che le tengono compagnia durante il tragitto?
Penso ai problemi organizzativi e pratici della quotidianità, del viaggio che sto per fare: lo vivo emotivamente ogni giorno, ogni pedalata. Penso a ciò che vedrò, chi incontrerò. Quando salgo in bici azzero tutto quel c’è intorno e mi concentro solo su ciò che sto facendo.
Quale sarà la sua prossima meta?
A dire il vero in programma ce ne sono due. Sarei dovuto andare a onorare i 95 mila soldati morti in Russia. Ma a giugno in un allenamento sono caduto in un burrone e ancora non ho finito la trafila sanitaria. Sono tutt’ora convalescente. L’altro viaggio è figlio di quel che ho vissuto lo scorso anno in Israele.
Di cosa si tratta?
Marco Cavallarin, aveva organizzato per me un incontro al giorno, in ognuno dei luoghi dove facevo sosta. A Tel Aviv ero atteso al museo civico cittadino dove sono arrivato con un’ora e mezza di ritardo all’appuntamento perché mi avevano perso la bicicletta in aeroporto. Sul piazzale mi ha avvicinato un signore e mi ha chiesto da dove arrivassi. Quando gli ho detto che venivo da Varese, la sua faccia s’è illuminata e mi raccontato che lui abitava a Gerusalemme: era Daniele Nissim, nato a Padova, suo padre era il rabbino della sinagoga di Padova.
Un’altra storia legata a quei tristi giorni di rastrellamenti?
Il padre di Daniele aveva conosciuto all’Università di Venezia una ragazza di Varese, Anna Sala, un’antifascista militante. Quando iniziarono i rastrellamenti degli ebrei, lui la contattò, ricordandosi che quella ragazza si dava da fare nella Resistenza. E Anna gli disse che se andava a Varese lo avrebbe fatto arrivare, grazie a un’organizzazione, in Svizzera, dove poteva considerarsi salvo. Lui, con la famiglia, partì da Padova, andò a Varese, incontrò la donna che aveva organizzato il trasferimento in Svizzera. Ma il mattino seguente il contrabbandiere che avrebbe dovuto portarli oltre il confine non si presentò. Seppero, dopo, che aveva preferito accompagnare un gruppo più sostanzioso, perché gli permetteva di guadagnare di più. Così, sempre con l’aiuto di Anna Sala e di un imprenditore locale, l’ingegner De Grandi, anch’egli antifascista, ottennero una casa che si trovava all’inizio del paese di Cunardo, dove la famiglia Nissim rimase nascosta un anno e mezzo. Quell’uomo incontrato a Tel Aviv mi chiese se potevo ricostruire la storia perché avrebbe voluto ringraziare la gente del paesino dov’erano nascosti. Così è stato: l’ho fatto e lui e la sorella sono venuti in Italia e abbiamo fatto una bella cerimonia.
Da questo nasce il suo prossimo viaggio?
Nel frattempo Daniele mi ha raccontato anche la storia di suo zio, il capitano Enrico Levi. Era arruolato nella marina militare italiana. Un giorno, sbarcando di ritorno da una spedizione gli dissero: “Non puoi più stare su questa nave, sei espulso perché ebreo”. Era il 1943. Con la rabbia in corpo, lui e altri quattro marinai presero delle biciclette e andarono da Padova a Bari: il viaggio durò otto mesi. Qui attrezzarono una nave per portare in salvo più ebrei possibili. Si arruolò nella marina inglese ed è stato il primo capitano a guidare una nave arrivata a Israele dopo che era stato proclamato Stato, nel 1948. Fece 34 viaggi, per portare in patria gli ebrei. Per onorare i cento anni di questa storia, a maggio prossimo farò in bicicletta il viaggio da Padova a Bari.
Emilio Chiorazzo