Quando uno chef pubblica un libro, il primo pensiero va alle ricette. “Dalla tavola lucana al Paradiso”, scritto da Federico Valicenti (Edizioni Magister, Matera ), diciamolo subito: non è un libro di ricette. O non solo. E’ uno scrigno. Uno di quei bauletti che i nostri nonni tenevano nelle soffitte e che, ogni volta che andavamo ad aprirlo, ci meravigliava per il suo contenuto. Cose antiche e dimenticate, non per questo da non valorizzare. Federico Valicenti, chef di Terranova di Pollino, dove gestisce il suo ristorante “Luna Rossa” ha compiuto un viaggio di sette anni sul territorio, alla ricerca di risposte a una serie di quesiti che, da cultore della sua terra, la Lucania, si è sempre posto. Nel libro Federico racconta storie, aneddoti, racconta i legami del cibo con la religione, con gli eventi cosmici. Ma traccia anche una strada, quella della valorizzazione di una memoria che, con gli anni, abbiamo sperperato e che potrebbe essere anche leva per una nuova economia del territorio. E, ancora, racconta la cucina come comunicazione, partendo dalle origini, (“Per me Cristo è stato il più grande chef di tutti i tempi, perché sapeva comunicare, col cibo”).
Un libro scrigno, dicevamo, proprio come uno dei cibi che lui stesso racconta e che poi propone nel suo locale, “il ciambotto”: il pane scavato della sua mollica e riempito di odori.
Facile intuire che, per raccontare tutto questo, occorra andare oltre i fornelli. Serve conoscenza, cultura del territorio. Ed è per questo che lui stesso si è autodefinito cibosofo, filosofo del cibo.
Cos’è un cibosofo?
Un neologismo. L’ho creato e vedo che incuriosisce molto. E’ il racconto del territorio attraverso il cibo, chiunque racconti il suo territorio con il cibo, per me è un cibosofo. Innalza la comunicazione a livelli più alti. La narrazione è l’elemento sovversivo dei territori, la cibosofia ne è l’espressione massima.
Beh, se è così, serve una grande conoscenza. E non solo di cibo. Però non è che si può dare la patente di cibosofo a tutti. Dobbiamo partire da un fatto: la cultura è una carta che noi al Sud dobbiamo giocarci, riappropriandocene, riprendendoci quello che noi stessi abbiamo distrutto. Occorre capire le potenzialità che hanno i nostri territori, con la storia, coi loro prodotti. Vincere questa sfida sarebbe un bel passo avanti, anche per combattere lo spopolamento. Ne abbiamo le potenzialità, vanno soltanto veicolate.
Nel libro dalla tavola lucana al Paradiso c’è tutto questo, c’è il racconto del territorio?.
Sì, è il frutto del lavoro di sette anni, è l’espressione del nostro territorio, la cucina raccontata attraverso gli eventi religiosi, gli eventi cosmici. Sono partito da alcune domande che mi sono fatto: perché il giorno di San Giuseppe si mangia la pasta con la mollica di pane fritto? O perché il giorno di San Biagio a Maratea si mangiano le alici fritte? E, ancora, perché a Satriano di Lucania, il giorno della madonna delle Grazie si mangia il coniglio ripieno e il giorno dei Morti si mangia il grano? La sera della vigilia di Natale si mangiavano nove cose, per quale motivo? Tutti questi quesiti mi hanno portato a scrivere questo libro
Ovviamente ha trovato ed ha dato le risposte a tutte queste domande?
Certo, ho trovate risposte che sono tutte legate al mondo del cibo. Sono risposte che mi hanno dato i territori stessi. Il giorno di San Biagio, a Maratea, si mangiano le alici fritte per ricordare un miracolo del Santo che tolse la lisca di un pesce dalla gola di un bambino, evitando che morisse soffocato. Il coniglio che a Satriano di Lucania si mangia per la Madonna delle Grazie è il riferimento a un’icona bizantina della Madonna che ha in braccio un coniglio bianco. E il grano, mangiato nella ricorrenza dei Morti, non è altro che il simbolo della resurrezione. La sera della vigilia di Natale mangiamo nove piatti, ma in origine erano nove cose diverse, per ricordare che la Madonna, nel cercare un posto dove far nascere Gesù, bussò a nove porte, le aprirono ognuno le dette un alimento. Ma nel libro tratto anche la cucina arbereshe, arrivata nel Sud Italia da oltre cinquecento anni, ma della quale non conosciamo memoria. E poi la cucina sefardita, quella ebrea che si usava nei mercati, nelle fiere: lo gnumariell’ è uno di questi, ha quelle origini. E poi la cucina delle campagne: si azzoppava una pecora e veniva usata per fare quel piatto che da alcune parti si chiama u’ cutturiedd, oppure bollito o monacale o pastorale. Parlo dei sette giorni della settimana, ognuno dedicato a un cibo diverso: il lunedì il brodo,per tenersi leggeri dopo il pranzo della domenica, più ricco. Il martedì le alici, mercoledì le polpette,giovedì gnocchi, venerdì pesce, sabato la trippa. Ho cercato di dare un senso a queste scelte.
Sono cibi che resistono ancora oggi?
Nella cultura contadina ancora sì. Ma dobbiamo riprenderci la memoria, scriverla. Dobbiamo creare una memoria del cibo lucano, perché altrimenti si pensa sempre alle stesse cose. La cucina lucano è una cucina povera: pasta e fagioli, lagane e ceci, cibi che fanno parte della tradizione popolare italiana. Chiudere in recinti la cucina è sbagliato. Sto girando la regione e trovo cose incredibili, legati al mondo arcaico, degli eventi cosmici. Il giorno dell’Ascensione si mangiavano i tagliolini bolliti nel latte. Il bianco mangiare. Si creava un rapporto catartico con il corpo di Cristo che saliva al cielo. Quel giorno era vietato cagliare, tutti prendevano un litro di latte, con un litro di acqua e ci mettevano i tagliolini. Avevano bisogno della verginità, di purezza, quello era l’ultimo giorno che avrebbero visto Cristo sulla terra. Il latte è la prima cosa che noi mangiamo.. è straordinario. Questo cambia il rapporto di cibo, il suo concetto.
Questo viaggio nel passato come lo coniuga al presente, con la sua attività?
Io penso che dobbiamo passare dalla cucina tipica a quella topica, il territorio trasformato in cucina. Alcune pietanze le faccio e le propongo nel mio ristorante: le nove cose le presento in un involucro di patate. Ho messo insieme baccalà, cipolla, uva sultanina. Oppure il panino, il ciambotto, è la cosa più bella della Basilicata che nessuno riconosce: al pane viene tagliata la calotta, viene svuotato della mollica e riempito di profumi. In alcuni posti si fa con melanzane, peperoni e patate. Lo chiamo il panino democratico, ci puoi inserire tutto dentro.
C’è una cosa che l’ha colpita di più delle scoperte fatte?
Il modo di legare il cibo agli eventi, alla religione. Da agnostico mi sono avvicinato a questo tema e ne sono rimasto affascinato, al punto che sto scrivendo un nuovo libro, sulla figura di Gesù: per me è stato uno dei più grandi chef degli ultimi duemila anni. Lui per parlare di cibo in quel modo doveva conoscere i crismi della cucina. Secondo me da bambino guardava la mamma come metteva il sale, come impastava acqua e farina. Crea una comunicazione, attraverso il cibo, in un modo incredibile. Parla attraverso il cibo, lui stesso si fa cibo. Capisce che è il valore fondamentale dell’uomo. Sto studiando Gesù dal punto di vista gastronomico.
Come spiega il potere della religione sul cibo?
Forse è solo questione di comunicazione, una grande visione. Attraverso il cibo si può comunicare a tutti, spesso le gradi filosofie, sono di classe. Col cibo si parla alla gente comune. Quando Gesù fece resuscitare la figlia di Giairo, gli disse: datele da mangiare. Secondo la mia lettura per lui il mangiare non è quello che si ingoia, ma la tavola, il modo di stare insieme, di stare a tavola per discutere. Oggi questo senso lo perdiamo perché abbiamo fretta. Noi al sud abbiamo tempo da perdere e questo è un valore al quale dobbiamo provare anche a dare un senso economico. Perdere tempo nei paesi del Sud è una ricchezza.