La foto di quel giovane davanti al Crocifisso di Cimabue devastato dall’esondazione dell’Arno nella basilica di Santa Croce è diventata un simbolo della tragedia che colpì Firenze. “Sono stato il primo a intervenire per salvare dall’acqua il Crocifisso di Cimabue nella basilica di Santa Croce”: chissà quante volte l’ha raccontata quella storia Salvatore Franchino, lucano, di Senise, che nel novembre del 1966, quando aveva appena 25 anni, era a Firenze, dove si era trasferito perseguire la sua grande passione: era falegname, voleva imparare l’arte del restauro. Salvatore Franchino si è spento, all’età di 78 anni, il 10 maggio (come riporta la notizia divulgata dal sito La siritide.it a firma Mariapaola Vergallito).
In occasione del cinquantesimo anniversario dell’alluvione di Firenze, la storia del giovane lucano che piangeva davanti al Crocifisso e che lottò per salvarlo, ha fatto il giro del mondo “Sono entrato da una finestra, di mattina presto –raccontò all’Ansa – L’interno era tutto allagato, l’acqua era ancora molto alta. Il Crocifisso, appeso alla parete, era gravemente danneggiato: fradicio, rotto in più punti, l’immagine pittorica devastata dalla furia dell’alluvione, che aveva strappato via forme e colori. Gridai, chiamando altri in soccorso per staccarlo dal muro: insieme, nonostante le grandi dimensioni facemmo il possibile per trarlo in salvo dalle acque”.
Quel Crocifisso è 4,50 metri per 3,90: fu issato su assi di legno e portato nella limonaia di Palazzo Pitti, “Dove occupò una stanza per due anni”, raccontò Salvatore. “Il nostro compito, da specialisti di restauro, era di farlo asciugare, progressivamente, e in modo che l’opera subisse il minor numero possibile di strappi, deformazioni e danni. La camera fu sigillata: seguivamo i progressi ogni giorno”.
Poi fu trasferito all’Opificio delle Pietre dure dove iniziò il restauro vero e proprio: “Ci vollero altri sei anni per curarlo dall’alluvione – ricordava Franchino – Li affrontammo con la pazienza che noi restauratori dobbiamo necessariamente avere e l’infinito rispetto che tutti noi provavamo nell’intervenire in un capolavoro di tale entità”.
In un’altra testimonianza raccontava il suo arrivo a Firenze: “Arrivai a Firenze nel 1961 da Senise dove facevo il falegname. Venni a Firenze perché avevo la passione per l’arte e volevo imparare a restaurare. Così per tre anni lavorai per una ditta che faceva restauri delle opere lignee per conto dei Beni Culturali. Nel 1966, quando arrivò l’alluvione, avevo 25 anni e per una settimana il mio compito fu quello di portare cibo alle persone che erano bloccate in casa, soprattutto anziani”.
Da alcuni anni Salvatore Franchino – che dopo essere stato un angelo del fango a Firenze, aveva prestato la sua opera anche in occasione di altre calamità naturali in giro per l’Italia – si era chiuso nel silenzio della sua casa fiorentina. Le sue condizioni di salute lo avevano spinto, di recente, a fare ritorno nella sua Senise, dove si è spento.
Nelle foto sotto il titolo Salvatore Franchino davanti al Crocifisso di Cimabue danneggiato dall’alluvione e in occasione di un evento in suo onore nella sua Senise (foto gentilmente concessa da La Siritide.it)