Di quella notte non ricorda granché: una grande paura,  il pianto straziante – di dolore e di rabbia – delle donne e dei bambini. E il buio. Perché le forze dell’ordine staccarono la luce in tutto il paese, isolandolo, per agire. Era il 14 dicembre del 1949, Filippo Novello aveva appena tre anni. Suo padre Giuseppe ne avrebbe compiuti 32 quattro giorni dopo. Stava lottando con i contadini del paese, Montescaglioso, che avevano occupato le terre. Chiedevano  esproprio del latifondo e riforma dei patti agrari.

Erano  quasi le 4. Le forze dell’ordine entrarono in paese per sedare la rivolta dei contadini e per arrestare i responsabili. Le case furono accerchiate dai militari che spararono alcuni lacrimogeni. Una motocicletta dei carabinieri cercò di raggiungere la caserma, dove avevano portato gli arrestati,  ma la folla aveva invaso il corso, quando il mezzo tentò di cambiare direzione, cadde. I carabinieri si sentirono in pericolo e fecero fuoco sulla folla, colpendo diverse persone. Una cinquantina. Giuseppe Novello fu ferito. Morì tre giorni dopo.

I militari  non riuscirono a prendere  il Segretario della sezione del PCI, non si fece trovare in casa avendo capito che la polizia sarebbe arrivata. Quell’uomo, Ciro Candido, pochi anni dopo diventa il secondo marito di Vincenza Castria, la mamma di Filippo rimasta vedova in giovane età. Filippo Novello ai due genitori ha fatto raccontare le storie di lotta e di dolore di quei giorni,  trasformandolo in un libro “Rossa terra mia” che racconta proprio le battaglie per il riscatto della Lucania nel nome di Giuseppe Novello.

Come nasce il libro?

Avevo chiesto a mia madre di scrivere questa storia. Lei scriveva bene. Forse grazie al fatto che da piccola era stata seguita, oltre alla scuola, da una maestra del paese dove mia nonna era a servizio. Convinto delle sue capacità di scrittura cercai di invogliarla a scrivere, volevo che mi raccontasse la sua vita, ma era sempre un po’ reticente. Così mi feci venire un’idea, prima che morisse: le preparai una specie di decalogo. In realtà erano quattordici domande. Le dissi: tu rispondi a queste mie richieste e dilungati quanto vuoi.  Lo fece, ma non riuscì a completarle perché la malattia avanzava e nel 1999 morì.  Per mesi e mesi non sono riuscito ad arrivare in fondo alla lettura perché mi emozionavo, mi commuovevo. C’è voluto del tempo. Quasi dieci anni dopo ho ripreso in mano quegli scritti. Non li ho dovuti modificare troppo. Anzi. L’unico problema è che quel racconto era monco, incompleto. Non aveva risposto a tutto il resto.

Una mano nel ricostruire la vicenda gliel’ha data anche il suo patrigno.

Mia mamma dopo la morte di mio padre, nel 1952, sposò Ciro Candido che era il vero leader del Movimento di occupazione delle terre. Lui mi ha cresciuto, decisi di intervistarlo. Riuscii a tenerlo fermo per sette ore con una telecamera e mi feci raccontare tutto. Quel materiale l’ho sbobinato: per ogni ora di ripresa ne ho impiegate altre sette per la trascrizione. Presentammo questo lavoro al premio letterario di LiberaEtà. Non vinse, ma decisero che avrebbero pubblicato in un libro la storia della mia famiglia.

Della storia di suo padre Giuseppe cosa le rimane dentro?

Da ragazzino chi mi stava attorno fece in modo di tenermi un po’ fuori da tutto. Ebbi una conseguenza fisica a causa della paura di quella notte: diventai strabico, un problema che mi portai per molto tempo e, ogni volta che vedevo un carabiniere andavo a nascondere. Ero terrorizzato. Avevo tre anni e mezzo. Ricordo vagamente le donne che urlavano e battevano i piedi a terra. Da adolescente, però, andai a ricercare questa storia. Avevo quindici o sedici anni: mia madre mi spiegò cos’era avvenuto anche per difendermi dai tentativi di alcune persone di raccontarmi quell’episodio in maniera travisata.

Che posto ha avuto nella sua vita questa storia?

All’inizio ho cercato di non interessarmi di politica,  anche se poi, nel 1970 fui eletto consigliere comunale del Pci. Siccome mio padre, il secondo marito di mia madre, aveva avuto una doppia carica, nel sindacato e nella politica, fu obbligato a scegliere solo uno dei due percorsi: io ero appena ritornato dal servizio militare, avevo 24 anni perché avevo chiesto il rinvio per motivi di studio. Frequentai una scuola  del sindacato e dopo diventai responsabile della Camera del lavoro del mio paese.

Erano gli Anni Settanta: tornò l’epoca delle occupazioni.

Era la fine degli anni Settanta: c’era nuovamente il problema delle occupazioni. Decidemmo di fare uno sciopero, andammo a occupare i Consorzi di bonifica, identificati come luogo di detenzione del potere. Lo facemmo per trenta giorni. Eravamo in trecento, anche se alla fine rimanemmo in molti meno. Riuscimmo ad ottenere  occupazione per una trentina di persone che avevano lottato. Ma i  responsabili dell’ufficio di collocamento di Montescaglioso ci dissero che non avrebbero potuto  far assumere persone che non erano in graduatoria, cercando di assegnarli a chi era in graduatoria e che non aveva partecipato, però, alle occupazioni. Ci fu una specie di sommossa.

Quella storia finì in tribunale.

Io e mio padre Ciro fummo incriminati. Per quel reato era previsto il mandato di cattura obbligatoria. Mio padre che era già stato in carcere per due mesi nel 1952, quando era sindaco. Mi disse: Filippo, so com’è il carcere, vattene via, salvati. Andai a Torino, rimasi nascosto per un mese e mezzo circa, fino  aquando la situazione tornò alla normalità. Quel mandato di cattura non fu mai spiccato, forse perché ritenuto eccessivo. Mia moglie attuale, che all’epoca era la mia fidanzata ed era rimasta al Sud, mi suggerì di non tornare. Rimasi in Piemonte: qui ho fatto il vigile, poi il comandante della polizia municipale di Chivasso, poi ho avuto un incarico a Torino, dove durante le Olimpiadi del 2006 fui nominato direttore della divisione commercio del Comune. Nel 2009 ho smesso di lavorare.

Rocco Scotellaro ha dedicato dei versi alla storia di suo padre Giuseppe.

Rocco era socialista, un giorno si trovarono in una riunione con mia madre che rimase un’attivista, dette un contributo alle lotte di emancipazione, non solo femminili. A un certo momento si avvicinò un ragazzo, era timido, le diede un fogliettino con scritto, a penna, dei versi. Quel foglio originale non l’ho mai trovato. La poesia  si intitola Montescaglioso. la dedica, credo, sia a mia madre perché a lei Rocco la consegnò.  Quei versi sono incisi sul cippo che commemora mio padre nel cimitero comunale di Montescaglioso.

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