Sono una donna maltrattata, non mi chiedete mai “Perché non ne hai parlato con nessuno?”
Sono una donna maltrattata, non mi chiedete mai “Perché non lo hai denunciato subito?”
E a quelle donne maltrattate che lo fanno non chiedete mai “Perché hai ritirato la denuncia?”
Non fatemi domande per le quali non ho le vostre risposte.
La gabbia è uno spazio chiuso, anche se è senza sbarre, anche se è uno spazio dorato. Quella di Anna era la sua casa. Non il perimetro del suo alloggio, ma ciò che ci stava dentro: il rapporto con il marito, non proprio equilibrato, quello con la famiglia e con gli affetti. Una quotidianità fatta di violenze, quelle che non lasciano i lividi. Prevaricazioni che segnano dei solchi profondi nella mente, al punto di privarla di ogni tipo di affetto.
Anna è una donna come ce ne sono tante. Solo che lei, un giorno, ha avuto il coraggio di bussare alla porta dello studio di un avvocato.
Maria Lovito, avvocato civilista, scrittrice, questa storia – che somiglia a tante altre storie – l’ha voluta raccontare in un libro “La gabbia di Anna” pubblicato dalla Edigrafema di Matera.
Chi è Anna?
Il nome è di fantasia, ma Anna è una persona vera, che assisto come avvocato. Una donna giovanissima, neppure trent’anni: è venuta in studio e mi ha chiesto di separarla dal marito. Abbiamo capito subito che non era una delle solite separazioni, che sarebbe stato più complesso, soprattutto per le condizioni in cui lei è arrivata nel mio studio. Abbiamo parlato a lungo, prima io e lei da sole. Poi con una terapeuta che le ho consigliato di seguire per fare un percorso di “ricostruzione” di se stessa.
Anna non era vittima di violenze fisiche?
No, solo psicologiche. Nel libro ho inserito un episodio di percosse, un’aggressione, l’ho fatto per discostare la storia reale dal romanzo, per non rendere riconoscibile la persona che ne è diventata protagonista. Anna finisce all’ospedale ma nella storia reale le botte non ci sono state. Ha subito solo pressioni psicologiche e da questo pungolo mi è nata l’esigenza di raccontare la storia. La violenza psicologica è l’anticamera di quella fisica. Ma non viene creduta, non viene provata, fino a che non sfocia in quella fisica, con tutte le conseguenze che comporta.
C’è una via di uscita a questa consuetudine di non essere creduti?
Intanto emerge che chi è vittima di questo tipo di violenza lo deve capire innanzitutto da sé. E’ un percorso molto personale di introspezione, arrivare a comprendere che si è dipendenti di una situazione, di un rapporto malato, tutto quel che non ci piace che viviamo con sofferenza, con imposizione, che non è scelta condivisa dei coniugi, è chiaro che non è più un rapporto sano. E’ frutto di dipendenza e sottomissione. La via d’uscita qual è? Capire che quel rapporto che non è sano, non lo devi più vivere. E poi trovare aiuto dalle persone competenti che ti devono far uscire da questa situazione. Anna è venuta da me e poi io l’ho indirizzata dallo psicologo, in altri casi ci sono centri di ascolto, strutture antiviolenza: questo è il primo passo da fare. Queste persone devono principalmente riprendersi se stesse. Lo racconto sempre, ad ogni incontro pubblico: ad Anna è stata fatta una diagnosi di anaffettività. Dopo dieci anni vissuti in questo matrimonio di isolamento e di manipolazione, non era più in grado di volere bene né a se stessa, né a suo figlio, né a nessuno. Si era chiusa in quella gabbia.
Una gabbia senza sbarre
Dorata, direi. Inossidabile e inattaccabile: una bellissima casa, costruita intorno a lei dal marito ossessivo compulsivo.
Quante Anna arrivano nel suo studio?
Le sfumature sono tante. Come la Anna del libro, per fortuna, non ne sono arrivate tantissime nel mio studio. Però scopro piano piano, con le mie assistite, che nella quasi totalità dei rapporti e delle separazioni, che io curo, ci sono stati episodi di violenza psicologica subiti e non raccontati dalle clienti. Lo fanno dopo la separazione, molto spesso ci si vergogna di dire che si è rimasti vittime di certi comportamenti a lungo patiti. Perché gli altri provano a colpevolizzarti. E’ il primo messaggio che arriva: “forse ho sbagliato io e quindi non lo racconto”. Il dato sommerso però è preoccupante, quindi pericoloso.
Perché si aspetta sempre troppo per far emergere il problema?
Perché il problema è proprio quello della presa di consapevolezza: devi arrivare a capire che quella è una stortura e non la normalità di come si vive un rapporto e che, soprattutto, tu non ne hai colpa. Anna nel libro, si fa delle domande: dà delle risposte ma conclude dicendo, “non fatemi domande per le quali non ho le vostre risposte”…. Non è facile consigliare un percorso a queste persone, né con estrema semplicità si esce da una storia malata: ci sono i figli, mancano il lavoro e una autonomia economica. Se la donna non lavora e dipende dall’uomo che la maltratta, la scelta di mollare diventa difficile.
E’ un problema solo femminile o c’è anche il rovescio della medaglia?
I numeri chiaramente sono inferiori, ma c’è anche l’altra parte della storia. In questo caso pesano di più gli stereotipi, nel senso che i numeri sono inferiori perché gli uomini non denunciano, si vergognano a raccontare di essere vittime della violenza della compagna, del partner, della fidanzata. E c’è una crescita esponenziale anche nelle coppie omosessuali, le dinamiche si ripetono.
Qual è la molla che l’ha spinta a raccontare la storia di Anna: quale funzione dà al suo libro?
Ho deciso di raccontare Anna perché dopo le prime due udienze in tribunale, io e lei sembravamo invisibili. Avevamo scritto pagine e pagine di ricorsi e memorie, raccontando dieci anni di questa storia. Sembravamo due matte che erano andate a raccontare un matrimonio un po’ sbilanciato ma tutto sommato anche sopportabile. Non avevamo prove, non potevamo dimostrare niente. L’incapacità di Anna di farsi ascoltare è diventata anche la mia incapacità, come legale, fino a che non abbiamo trovato la strada giusta per attirare l’attenzione del magistrato. E poi perché penso che gli avvocati, come un po’ tutti gli operatori che lavorano in questo settore devono imparare ad ascoltare con un po’ di attenzione le storie. Una funzione sociale che è rimessa a noi avvocati e che dobbiamo recuperare.