Tutto è iniziato da una lettera che la madre gli lesse per telefono. Lui era a Bari, dove stava studiando alla facoltà di scienze politiche mentre quella preziosa corrispondenza era arrivata nella casa dei genitori, a Bernalda. “Era la comunicazione che ero stato ammesso alla scuola Comic Lab che Serena Dandini teneva a Potenza”. Un messaggio che lo riempì di gioia. Ma solo momentaneamente, perché il pensiero successivo fu: “Ora devo dirlo a mio padre” “Provai a dire a mia madre: ma’ glielo dici tu? Ma mi rispose, in dialetto: si’ pacc. Glielo dissi io. Mi presi un bel vaffa… Ma alla fine mi accompagnò lui a Potenza”.

L’avventura di Dino Paradiso, attore, comico, cabarettista lucano di Bernalda, comincia da lì: nel passato c’era stata un’esibizione davanti ai compagni delle medie e poi l’esperienza con la compagnia teatrale della parrocchia. Dopo è stato un crescendo di impegni e di successi:  trionfi nei festival della comicità sparsi per l’Italia, la chiamata nel cast di “Made in Sud” sui canali Rai e poi, a “Colorado” di Mediaset dove avrebbe dovuto fare solo sei puntate, ma fu uno dei pochi tra i comici emergenti, a essere scritturato per tutta la stagione.

Si racconta che al provino per la scelta dei comici, a Dino Paradiso era toccato un’esibizione nel finale di serata, quasi a notte fonda. E che, poco prima che lui salisse sul palco, era arrivato in platea Diego Abatantuono che di quella trasmissione è ideatore e produttore. “Uno dello staff, dietro le quinte, ci disse che non capitava quasi mai, ma che quando ‘era, non lo avevano visto mai ridere”. Non fu così, quella sera: l’esibizione di Dino Paradiso lo travolse. Abatantuono rise rumorosamente e si complimentò con quel comico che, sul palco, aveva portato – come fa sempre – un pezzo della sua esistenza, delle sue esperienze, della sua famiglia. Un pezzo della sua lucanità.

Ma portare sul palco la lucanità, cioè vizi e difetti di una regione che quasi nessuno conosce nel resto d’Italia, non è stato un ostacolo?

E’ stato un modo per raccontarmi, raccontare  un elemento distintivo. Alla base del ragionamento c’è il fatto che il tuo punto di debolezza può diventare punto di forza. Intendiamoci, essere lucano non è un valore aggiunto, non può esserlo. Non è che vai a fare un provino saluti i presenti e dici: dovete prendermi perché sono lucano. Non è un elemento distintivo del proprio curriculum. Non è che un comico lo distingui dall’ospedale dov’è nato. Ma essere lucano è stato, per me,  un punto di svolta. Mai nessuno prima aveva fatto della lucanità un tratto essenziale e distintivo in ambito artistico. In realtà, per rispondere alla domanda,  è stato più facile: se ero campano, siciliano  o pugliese era quasi la norma, ce ne sono tanti. Lucani nessuno: Papaleo, Girardi e il trio La Ricotta sono artisti bravissimi ma non hanno fatto della lucanità la loro caratteristica.

Lei non rappresenta una maschera ma è un monologhista come i comici di una volta: è una scelta ragionata?

E’ una scelta stilistica. Durante il periodo di studio al Comic Lab con Serena Dandini, abbiamo fatto tanti spettacoli con i compagni di classe, di ogni tipo, ogni genere. Ho provato a stare in copia, in un trio. Nel 2006 in quattro siamo andati al festival del cabaret di Grotta a Mare, uno dei più importanti. Quattro comici di luoghi diversi, un siciliano, un pugliese un campano e io. Abbiamo fatto un  pezzo ma sul palco, dopo pochi minuti, ci hanno eliminato. Ora ognuno di noi vive di questo lavoro. Voglio dire che insieme non siamo riusciti a rendere allo stesso modo. Per me hanno prevalso, nella scelta, lo stile narrativo e le sensazioni personali. Salgo sul palco e dico: sono Dino Paradiso e sono lucano. Mi racconto,  tutto parte da qui.

Si ispira spesso a libri per mettere in scena i suoi spettacoli: è un buon lettore o un dissacratore di libri?

Sono un buon lettore ma sono convinto che la comicità non sia una riduzione, un po’ come  avviene in cucina con certi alimenti. La comicità vive di tanti ingredienti: culturale, sociale, morale, valoriale, intellettuale. Possono essere mescolati insieme e cucinati. Non è detto che per far ridere occorra essere leggeri. E poi chi dice che il comico debba far ridere obbligatoriamente. C’è , come nel clown, una drammaticità interna che ha il suo peso. Le letture fanno parte del percorso artistico, contribuiscono a formarlo: mi trovo bene con il one man show, col cabaret, ma la vita di Pitagora o la Divina Commedia, fatta insieme con Trifone Gargano, docente di Foggia, grande esperto di Dante, sono elementi che messi insieme, se capisci l’equilibrio, il giusto dosaggio tra gli elementi, danno un ottimo risultato. Racconto Pitagora in modo brillante, lo porto nelle scuole ed è un successo, perché Pitagora è un personaggio moderno, attuale. Io lo rendo leggero.

Si può far ridere di questo periodo di quarantena?

Certo, molto dipende da come si recepiscono le battute di un comico. Io racconto la realtà, le cose che vedo. E devo dire che tutto è un po’ tutto. Questo virus non si vede, è piccolo, infinitesimale. Nessuno sa dove sta. Però ci hanno detto di non uscire perché è in giro: dico io, lo sapete o no dov’è? Esci per una passeggiata e se ti fermano i carabinieri e ti trovano senza il foglio, te ne torni a casa con quattrocento euro di multa. Non è comico, questo. Tutti quelli sposati si sono dovuti abituare alla convivenza. Noi eravamo sposati senza convivere: 24 ore insieme al partner è difficilissima. Molti amici miei hanno scoperto di essere sposati, altri hanno scoperto addirittura di avere due figli. I nostri nonni,  quando arrivavano al limite della sopportazione, se ne uscivano: vado a fare una minestra di asparagi, dicevano. E così si stemperavano gli animi, non si arrivava mai  a livelli tragici. Mo’ no. Non si può nemmeno uscire per fare asparagi. Con un doppio risultato negativo: c costringono a stare a casa, ci incazziamo con le mogli e ci dobbiamo mangiare cose non buone come quelle che prendevamo direttamente in campagna.

C’è un episodio che le ha fatto capire che questo sarebbe stato il suo mestiere?

Non un episodio. Forse un periodo, un anno. In prima media feci il mio primo spettacolo: in una specie di assemblea di istituto feci delle imitazioni. Una ventina di minuti di esibizioni che io non credevo neppure di essere in grado capace di affrontare per colpa del mio carattere molto introverso. Invece, poi ho scoperto che il palco è una specie di terapia, per me. Il merito è del fatto che ho frequentato gli scout. La filosofia dello scoutismo mi ha fatto scoprire che quei limiti che credevo di avere, sul palco si trasformavano in punti di forza. Sentivo che la gente mi apprezzava per quel che facevo ma ero piccolo per capire. La professoressa di italiano dopo quella esibizione chiamò mia madre e le disse: mandalo a studiare fuori, Dino deve fare l’attore da grande. Era una proposta irricevibile per una famiglia del Sud, che vive a Bernalda. Andare fuori a spendere soldi, un’idea da non prendere in considerazione. Poi col tempo mi sono reso conto che la propensione alle imitazioni veniva bene. Io nasco imitatore, la gente mi conosceva come imitatore. Se uscivo di casa, mi fermavano e mi chiedeva di imitare qualche personaggio. Ero conosciutissimo. Mi sono candidato al Comune di Bernalda, avevo 25 anni, sono stato il più votato. Poi ho fatto la scuola di comicità di Serena Dandini. Ma più che questi episodi, forse è stato quel che mi è accaduto nel 2013 che mi ha spinto a far diventare questo un mestiere.

Cioè, cosa è avvenuto?

Dopo le esperienze paesane, un mio compagno che voleva fare il comico ma non c’è riuscito e in compenso ha fatto cinque figli, nel 2013 mi disse: Dino ti devi far conoscere, vai in giro, partecipa ai festival. A me non piaceva l’idea di salire su una macchina e andare in giro a fare i festival. Mi ricordavo ancora quel viaggio verso Grotta a Mare, con i miei compagni di scuola di comicità, non finiva mai, era una sofferenza, una noia. Ma mi feci convincere dalla sua insistenza: Feci il concorso “Bravo, grazie” a Roma e  vinsi. Non me lo aspettavo, non ci credevo. Poi sono andato a Salerno, dove vinsi anche al festival “Charlot”. E  sempre in quell’anno vinsi anche il Cabaret di Martina Franca, forse il festival più bello che c’è in Italia. Tre vittorie, questa cosa di essere lucano, di parlare di mia madre, di essere provinciale nella scrittura, nel senso nobile del termine, mi hanno dato la spinta, la consapevolezza che quella poteva essere la strada da percorrere. Fino a quel momento non potevo vivere di comicità, tanto che ho fatto mille lavori: l’ultimo è stato il consulente del Gal, mi occupavo di finanziamenti europei. In realtà, poi non mi rinnovarono il contratto con il Gal e fu in quel momento che dissi: ora devo puntare su me stesso.

C’è un complimento che ha ricevuto e che le è rimasto in mente?

Un disegno di un bambino di Bernalda. Mi ha spedito una letterina, come si fa con Babbo Natale: ciao, mi chiamo Alberto, vivo a Bernalda, mi fai molto ridere. Quando ci incontriamo mi farebbe molto piacere se mi salutassi. E’ stato una cosa bellissima.

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