“Scusi, che ore sono? Ah, no, lo so benissimo che ore sono, ho comprato questo bellissimo orologio in Svizzera. Solo che a volte mi piace chiedere a uno qualunque che mi passa vicino “Scusi, che ore sono?” giusto per ascoltare la mia voce, ogni tanto.”
- Sono le prime parole del video che racconta la figura di Pio Carmine Remollino, l’unico lucano morto nella strage alla stazione di Bologna, avvenuta il 2 agosto del 1980. Quarant’anni fa. Era nato a Bella, ma con la sua famiglia aveva vissuto a Baragiano.
Il progetto di raccontare le storie di tutte le vittime della strage di Bologna, risale a quattro anni fa e nasce sulla scia del progetto “Una vita, una storia”, realizzato nel 2016, in occasione della commemorazione del 2 agosto, con la distribuzione di cartoline con le biografie delle 85 vittime. Si chiama “Cantiere 2 agosto” ed è affidato a 85 narratori che hanno raccontato le 85 storie delle vittime della strage, rappresentandole in diversi luoghi della città di Bologna. Uno dei tanti tasselli di questa vicenda che, da quarant’anni, va avanti con un mistero dietro l’altro. L’ultimo, risale a pochi giorni fa. E’ il risultato delle indagini incessanti, delle inchieste giornalistiche ma anche – e soprattutto – del lavoro che ogni giorno fa l’associazione delle famiglie delle vittime, per non staccare mai il filo della memoria da quel 2 agosto 1980.
La voce – e l’anima – di Pio Carmine Remollino è stata affidata a Luca Garozzo.
Ma chi era Pio Carmine?
Nelle poche note biografiche, desunte attraverso le testimonianze dei parenti e raccolte dall’Associazione dei familiari delle vittime, Remollino era un “ragazzo come ce ne sono tanti”. Sempre accigliato, di poche parole ma intimamente generoso, dicevano di lui i suoi fratelli per rappresentarne il carattere.
Aveva 31 anni quando morì, tra le macerie della stazione di Bologna. Nessuno ha mai saputo perché si trovasse lì quel giorno. Se stesse aspettando un treno, magari in cerca di un nuovo lavoro. O se stesse tornando al suo paese. Due ipotesi possibili, che parlano entrambe del suo carattere e del momento che stava vivendo.
Pio Carmine Remollino era orfano di madre. Viveva con il padre e sette fratelli. A diciotto anni, con quattro di loro, era andato in Svizzera a cercar fortuna. Ma ne era tornato due anni dopo. Doveva fare il servizio militare. Fu mandato a Pavia.
Quando si congedò, cominciò a girare l’Italia in cerca di un lavoro e di un salario per campare: aveva fatto il muratore, provò a fare il cameriere. Gli stessi lavori che fece a Ravenna, quando arrivò in Romagna, nel 1976. In quei quattro anni che lo separavano dalla morte, lavorò spesso anche nelle località turistiche dei lidi ravennati.
Come tanti meridionali, aveva sentimenti discordanti nei confronti delle sue radici: forse avrebbe voluto cancellarle. Dai luoghi, dalle persone, dalla miseria. E’ per questo, probabilmente, che si faceva sentire poco dai suoi familiari. In quel maledetto 1980, solo in occasione della Pasqua aveva chiamato suo padre, che all’epoca aveva 76 anni, per fargli gli auguri. Poi non si era fatto più sentire. Forse voleva tagliare quei legami.
O forse, quel 2 agosto, era dentro la stazione di Bologna per prendere un treno che lo portasse proprio al Sud, al suo paese, per presenziare alla festa del patrono, che richiama tutti gli emigranti.
Nessuno lo ha mai saputo.
Della sua morte non si seppe subito. Il padre e i suoi fratelli lo appresero due giorni dopo. Il lunedì successivo all’esplosione. Lo lessero sul giornale che dava conto del lungo e doloroso elenco dei morti. C’era addirittura il luogo di nascita sbagliato. Lo segnalavano come calabrese. Ma i suoi fratelli capirono subito che si trattava del loro Pio Carmine. Due di loro, Giuseppe e Gerardo, andarono a Bologna per il riconoscimento. Gerardo non ebbe neppure il coraggio di entrare all’obitorio dov’erano state raccolte le salme degli 85 morti.
Se ne tornarono con il cuore gonfio di dolore, la certezza di aver perso un fratello e pochi oggetti che erano stati recuperati dalla salma: una carta di identità, gli indumenti che indossava, un libretto bancario con poche migliaia di lire.
Il testo del video:
“Scusi, che ore sono? Ah, no, lo so benissimo che ore sono, ho comprato questo bellissimo orologio in Svizzera. Solo che a volte mi piace chiedere a uno qualunque che mi passa vicino “Scusi, che ore sono?” giusto per ascoltare la mia voce, ogni tanto.”
Bella la Svizzera, sì, un po’ fredda, ma anche là sono rimasto poco; c’è rimasta, invece, mia sorella che si è fatta una vita. Lontano dal paese, come tutti noi fratelli. Giù non ci voglio più andare. Sono un terrone, sì, che sembra un insulto, ma a me, almeno, così non pare. Mi piace essere legato alla terra e allora terrone va bene. Mia mamma, invece, quelli che voi chiamate terroni, li chiamava cafoni, e per ogni volta che io o qualcuno dei miei fratelli o anche qualcun altro per strada si comportava male, eravamo tutti cafoni. Sei un cafone, e non c’era appello, e quello almeno è un ricordo che ho di lei, perché anche lei se n’è andata; no, non all’estero, o al nord, se ne è proprio andata via da questo mondo, forse troppo presto. Anzi, senza forse. Allora giù da solo, con mio padre, non ci voglio stare. Non voglio restare là, figlio unico di sette fratelli e con la gente del paese. Quelli sempre a dire cosa devi fare o non fare, a criticare alle spalle, senza dirti le cose in faccia, e poi di nascosto brigare, combinare chissà cosa. Voglio star fuori da quel mondo, ma nemmeno voglio dirglielo; che lo capiscano loro, se non mi vedono per dei mesi, che io con loro non voglio avere a che fare. Che poi, i miei pensieri, me li tengo per me, che indovinino pure cosa mi passa per la testa, che ci azzecca… i miei pensieri han bisogno di silenzio, per questo parlo poco, non dico con la mia famiglia, ma proprio in generale. I miei pensieri non assomigliano a quelli di questa gente, tutti a pensare alle vacanze… a dove andare, ai parenti e agli amici da incontrare. Beh, non lo dico solo perché non ho amici, e i parenti, meglio lasciar stare, ma perché lo vedo da come sono vestiti, dai gelati che tengono in mano, dall’espressione di voglia di gelato di quelli che sono rimasti senza, dai loro discorsi che mi piovono addosso qua e là, frasi spezzate, parole sparse, ma tutta una gran confusione, per questo sono uscito dalla sala d’aspetto. Mi porto dietro questa valigia perché qui dentro c’è tutto quel che ho. Anche la mia terra: appena ti vedono in giro arrivare in qualche posto con questa valigia, la gente la prima cosa che pensa è “Guarda, un altro terrone.” E anch’io lo penso, altrimenti non avrei questa valigia, non starei in giro a cercare un lavoro, un posto dove fermarmi, un posto nel mondo. Ma quanto ci vuole perché arrivi ‘sto treno? Come? Sì, guardi, sono le 10.24 in questo momento… sì, prego…