C’è una bellezza, nell’arte, negli oggetti, ma anche nelle storie, che ha bisogno di occhi attenti per essere percepita. Occhi nuovi, perché è una bellezza silenziosa, che non “strilla”, che non si impone. Ma non per questo è meno bella. La bellezza silenziosa è quella che due ricercatori e appassionati di storia locale, Mariano Mastropietro e Francesco Buglione, hanno deciso di mettere in mostra, nel redigere un catalogo dei beni ecclesiastici presenti a Carbone, piccolo centro della Basilicata, ai piedi del Pollino.

Un lavoro che non hanno compiuto da soli. Si sono avvalsi di altre collaborazioni: al progetto, che ha più di una finalità, hanno lavorato in quattordici. Il risultato è un volume che si avvale anche dei contributi del sindaco Mario Chiorazzo, del parroco Giuseppe Addolorato, di don Aldo Viviano che ha contribuito a conservare questi tesori, di Luigi Branco cittadino onorario di Carbone e autore del volume “La storia del Monastero di Carbone di Paolo Emilio Santoro con la continuazione di d. Marcello Spena” (1998); di don Antonio Appella, sacerdote e archeologo, autore del testo “Il chiostro, il fiume e il castello. Il microcosmo di Carbone dall’età medievale tra monaci e signori nella valle del Serrapotamo” (2015), che ha curato numerose voci della miscellanea. E  poi c’è la presentazione di Francesco Buranelli, oggi presidente della commissione permanente per la tutela dei monumenti storici e artisti della Santa Sede e che è stato direttore dei Musei Vaticani.

 

Questo è “La Bellezza Silenziosa, i beni culturali ecclesiastici di Carbone in Basilicata”: un volume che sembra propedeutico alla preparazione di un Museo di storia locale che dovrà nascere all’interno del Convento dei Francescani. Ma che traccia, attraverso opere d’arte e oggetti conservati nel corso dei secoli nella Chiesa Madre del centro urbano, la storia di una comunità che è stata fiorente e vivace culturalmente, grazie alla presenza del Monastero di Sant’Elia da una parte e del Convento dei Francescani dall’altra: un ponte tra il rito greco e quello romano, un anello di congiunzione tra Oriente e Occidente.

Un percorso, quello compiuto con questa ricerca curata da Mastropietro e Buglione, che attraverso le presenze religiose (c’è da annoverare anche una chiesa dei Fraticelli, i frati che si ribellarono alla gerarchia ecclesiastica e, per questo, furono ritenuti eretici), dei luoghi di culto (si contavano in paese due chiese e dieci cappelle,  per la maggior parte delle quali oggi rimangono solo riferimenti topografici) e che passa anche attraverso le

Il saggio “La terra di Carbone in età Spagnola” di Mariano Mastropietro

storie e le vicende delle famiglie gentilizie, i loro possedimenti e  le loro donazioni. Ne viene fuori una comunità connotata dalla forte presenza religiosa, ma anche pregnante di una vivacità culturale insospettata. Con i due curatori del volume, Mariano Mastropietro, laurea in filosofia, insegnante, autore di un saggio su “La terra di Carbone in età spagnola”  e Francesco Buglione, un ingegnere nucleare con la passione delle ricerche storiche, abbiamo provato a sintetizzare quel che hanno scoperto, raccolto e catalogato, in oltre un anno e mezzo di lavoro.

Partiamo dal titolo: perché “La Bellezza Silenziosa”?

Mariano: Abbiamo scelto un oggetto che, a primo acchito, potrebbe sembrare quasi secondario rispetto alle molteplici e peculiari opere conservate nelle diverse istituzioni ecclesiastiche carbonesi e in particolar modo nella chiesa di San Luca Abate. E’ un secchiello per l’aspersione, quindi, un manufatto apparentemente poco interessante (datato al 1669 come si può leggere dall’incisione), che solitamente passa in secondo piano e proprio per questo è l’emblema per antonomasia della “bellezza silenziosa” e cioè di una bellezza assolutamente non muta che sa parlare in silenzio. E’ il biglietto da visita del lavoro svolto. Dietro c’è l’idea di un pozzo che richiama la nostra attenzione, un pozzo al quale dover necessariamente affacciarsi per poter vedere, un invito a guardare ciò che resta silenzioso. Ma non lo è. Anche il bastone dell’aspersione che si vede solo a metà segue questa filosofia: il desiderio di far conoscere tutta questa bellezza, che è sì “nascosta”, silenziosa ma che ha la stessa incisività e la medesima forza evocativa e rievocativa di quella che comunemente consideriamo come la grande arte.

Non vi ha condizionato il fatto di aver lavorato su un’arte minore?

M.: Affatto, accanto alla grande arte, così come alla Storia dei grandi eventi, ci sono le micro storie locali, che hanno apportato il loro contributo partecipando attivamente ai vari snodi cruciali e senza le quali la grande storia non si sarebbe compiuta e non si sarebbero ottenute grandi conquiste, quali ad esempio la “costruzione” dell’Italia unita. Allo stesso modo, accanto alla grande arte ce n’è una piccola, non certo minore, che merita di essere studiata e raccontata, ovviamente contestualizzandola, spiegandone e motivandone le ragioni, con rigore e serietà, evitando inutili campanilismi o improduttive e disinvolte derive ed esaltazioni.

Il volume è un tassello di un insieme di azioni, di un quadro più organico…

M: Il catalogo è stato realizzato grazie all’iniziativa promossa dal sindaco Mario Chiorazzo, previa autorizzazione della Diocesi di Tursi-Lagonegro a cui i beni appartengono, e ha il compito di valorizzare, recuperare, promuovere e rendere fruibile il cospicuo patrimonio culturale ecclesiastico consistente in molteplici e peculiari opere d’arte, alcune delle quali di pregevolissima fattura. Questo volume può essere concepito come azione preparatoria e propedeutica al museo, che si sta allestendo all’interno della chiesa francescana della Santissima Annunziata che si prefigge come scopo precipuo quello di far “risplendere” quest’arte poco nota, in quanto ha consentito di mettere a sistema una vera e propria ricognizione, catalogazione e inventariazione del patrimonio esistente.

Francesco: Per valorizzare occorre avere la piena conoscenza di quel che c’è, tornando a volgere gli occhi alle tante meraviglie che ci circondano e che, per abitudine, non guardiamo più. Per comprendere questo patrimonio storico-artistico, bisogna riappropriarsi dell’ottica dell’epoca in cui i diversi beni, che lo compongono, sono stati realizzati: come e perché, per creare un oggetto che svolgesse anche una funzione semplice, è stato scelto quel materiale, quella tecnica, la rappresentazione di un dato particolare. Da questo punto di vista, Carbone è un esempio di ricchezza incredibile nella valle del Serrapotamo. Perciò, il compito che abbiamo accettato è quello di ridare piena luce a questo patrimonio, parlandone e facendolo conoscere attraverso le ricerche e le osservazione degli studiosi.

Quanto tempo ci avete messo?

M: E’ stata una lunga gestazione. L’idea del progetto è stata formalizzata agli inizi del 2018. La convenzione con la Diocesi di Tursi Lagonegro, per avere l’autorizzazione a fotografare gli oggetti, invece, risale al 18 ottobre 2018. Infine, il volume è stato dato alle stampe nel mese di agosto 2020.

Tanti beni culturali a Carbone: perché?

F.:  Il perché è da ricercare nell’importante ruolo che il centro ha avuto nel corso dei secoli soprattutto grazie alla fama e alla ricchezza del monastero basiliano dei Santi Elia e Anastasio, unico in tutta la Basilicata a mantenere il rito greco dalla fondazione nel IX secolo alla chiusura nel 1809. Sin dalle origini, luogo di spiritualità e di incontro, da metà Cinquecento Carbone ospita anche una comunità di francescani minori Osservanti. L’epoca è quella in cui si assiste ad un lento declino del monastero ormai ridotto a commenda e dato a religiosi (per lo più Cardinali) che godevano delle sue rendite, vivendone, però, lontani. È solo grazie a quelle che potremmo definire vere e proprie politiche di rilancio del Sant’Elia che i commendatari Giulio Antonio e Paolo Emilio Santoro, zio e nipote, riescono a ridare al monastero il suo ruolo centrale di modo che le due realtà religiose, dei basiliani e dei francescani, diventano motori e vera spinta economico-culturale del luogo, in un continuo scambio tra Oriente e Occidente. Carbone diviene così un centro popoloso e fiorente, con diverse chiese e cappelle gentilizie, un polo attrattivo, dove per la grande devozione della comunità e la ricchezza delle committenze, è possibile anche l’affermarsi delle maestranze locali in realizzazioni artistiche di pregio.

Di quale periodo parliamo?

F.: Il periodo è quello che va dalla seconda metà del Cinquecento, con il conferimento della commenda al cardinale Giulio Antonio Santoro nel 1570, a tutto il Settecento. È lui a terminare i lavori di ristrutturazione della chiesa del monastero ma è il contributo del nipote, Paolo Emilio, a farne “per eccellenza e dignità delle pitture” una delle più belle nel Regno di Napoli. Potremmo dire si tratti di un autoelogio, visto che è lui stesso a scriverlo nella sua importante opera “Storia del Monastero di Carbone” del 1601, ma serve comunque ad avere la dimensione di come la chiesa, distrutta ad inizio Ottocento, dovesse apparire. Infatti, si sa che commissionò, sul finire del Cinquecento, la pala dell’altare maggiore, ormai dispersa, a Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino, e le tele di “Santa Caterina d’Alessandria” (dispersa) e “Sant’Elia che sale al cielo” ad un altro autore di cui, però, tace il nome. Nell’ambito di questa pubblicazione, quest’ultima tela, oggi conservata nella chiesa madre di San Luca Abate, è stata attribuita dalla storica dell’arte Odette D’Albo a Bernardino Cesari, fratello minore del più noto Giuseppe, sia per l’analisi stilistica che per la parte di firma visibile sulla tela. Ancora, all’interno della chiesa del Sant’Elia, si trovavano le tele attribuite a Salvatore Ferrari da Rivello, pittore attivo nella prima metà del Settecento, oggi custodite in chiesa madre. Nel convento, invece, troviamo autori del calibro di Giovanni De Gregorio, detto il Pietrafesa, e Francesco Oliva. Questo per parlare solo della pittura, ma tante altre sono le opere di valore che si presentano in questo volume. Ai Santoro va, quindi, riconosciuto il merito di avviare e vivacizzare la vita culturale di Carbone, come testimonia ancor oggi la presenza di questi grandi autori in un centro che oggi consideriamo periferico.

I beni che avete catalogato erano, in gran parte, corredo delle cappelle del paese. Quante chiese e cappelle c’erano a Carbone?

F.: Nella relazione che il sindaco Pietrantonio Padula inviava nel 1735 al Gaudioso, si dà notizia che a Carbone, “Terra intorno a 2000 abitanti” esistono una chiesa parrocchiale e altre dieci cappelle, nel cui novero vanno incluse quelle pertinenti al monastero di Sant’Elia e al convento dei frati minori osservanti. Attualmente, nel centro abitato esistono ancora, oltre alla chiesa madre di San Luca Abate, sorta sull’oratorio documentato nel 1059, e alla chiesa del convento intitolata alla Beata Vergine Annunziata del 1548, la cappella di Santa Maria degli Angeli, ricordata come una delle più antiche da don Marcello Spena (che nel 1831 redige la prima edizione tradotta dell’opera in latino del Santoro, aggiornandola fino ai suoi giorni), e la cappella di Sant’Anna, cappella gentilizia fondata nel 1668 da don Domenicantonio Damiano e oggi proprietà dei De Nigris. Tra le cappelle, distrutte per via dei tanti terremoti e delle intemperie, la più importante era quella di San Nicola, “un santuario, che senza tema di errare, forma il preggio di questa patria, non solo per la grandezza ma per la fervida divozione degli abitanti“, e quelle di San Sebastiano, edicola di cui forse è possibile vedere i resti nella salita poco distante da Palazzo Castronuovo, e di San Gerardo, fondata dalla famiglia Ciaramelli, probabilmente in relazione al loro palazzo, nei pressi delle omonime vie. I luoghi di culto, si sa, diventano presto punti di riferimento, spirituale e fisico, all’interno di un paese. Perciò, anche quando gli edifici crollano il loro ricordo è mantenuto negli agiotoponimi.

M.: Diversi erano anche i luoghi di culto presenti fuori dall’abitato. La cappella di Santa Caterina d’Alessandria era ubicata nell’area detta Montechiaro, corrispondente al piccolo agglomerato che fu distrutto da un incendio e definitivamente abbandonato nel 1432, difatti, la popolazione fu costretta a spostarsi nel centro abitato di Carbone contribuendo, probabilmente, ad un ripopolamento di quest’ultimo, unendosi ai superstiti del centro scomparso di Faraco, distrutto da un terremoto nel 1305. La cappella di Santa Caterina d’Alessandria fu voluta dal commendatario Giulio Antonio Santoro proprio in ricordo di quella esistente prima dell’incendio, questa si mantenne attiva fino al terremoto del 20 novembre 1836 che ne provocò il crollo definitivo, ma la statua che si venerava fu salvata e ancora oggi si conserva nella chiesa del convento francescano. Sotto il commendatario Paolo Emilio Santoro, secondo una testimonianza raccolta da Marcello Spena, fuori dal paese, in contrada Gordio, nel 1604 fu edificato il santuario dedicato alla Madonna del Soccorso del quale, oggi, nulla resta, infatti, dopo i gravi danni strutturali subiti a seguito dei tristi eventi sismici, il nuovo santuario (moderno nelle linee e nell’impostazione) fu riaperto al culto nel 1993. Al suo interno è ospitata la statua della beata Vergine del Soccorso (in legno, intagliata e ridipinta, appare solenne, decisa e severa, protettiva e materna) che è la protettrice della comunità. E poi il piccolo eremo extra moenia di Santa Maria del rifugio, conosciuto dal popolo col nome di “Fraticelli”. Si tratta di una piccola cappella privata riportata nei documenti come antichissimo patronato della famiglia Galdino, poi passata ai Castelli e attualmente di proprietà dei Chiorazzo. Quella della Madonna dei Fraticelli non era l’unica cappella privata. La famiglia Castelli ne aveva una all’interno del proprio complesso abitativo; due erano nella proprietà dei Cascini, una interna al palazzo e una nella corte; un’altra ancora, quella di Sant’Anna, fu fondata per volere di don Domenico Damiano per poi passare ai Castelli, fino a quando Maria Francesca Castelli sposò l’avvocato Biagio Antonio De Nigris e, per tale ragione, ancora oggi, appartiene proprio a quest’ultimi. Lo stesso palazzo De Nigris originariamente apparteneva agli Spena così come palazzo Cascini era di proprietà della famiglia Innecco, originaria di Lagonegro.

Come si spiega la presenza di tutti questi luoghi di culto?

F.: Carbone è un centro che nasce e si sviluppa attorno alla vita e alla spiritualità del monastero basiliano, traendo il suo nome proprio dal fondatore dello stesso, San Luca Karbounes, che ricevette l’abito monastico da San Saba il Giovane. La popolazione, sin dalle origini, mostra un forte fervore religioso ed è questo a motivare questo numero considerevole. L’odierna chiesa madre, secondo le più recenti ricostruzioni, sarebbe da identificare con l’oratorio documentato nel 1059 e edificato sulle tombe dei Santi Luca e Biagio, primi egumeni del monastero, divenute sin da subito luogo di culto. Intorno a questa, si sarebbero raccolti, poi, anche i superstiti dei casali di Faraco, distrutto da un terremoto e completamente abbandonato nel 1305, e quelli di Montechiaro, incendiato nel 1432, dando vita così al paese che conosciamo. A Faraco esistevano due cappelle, una dedicata a Sant’Andrea apostolo l’altra alla Madre di Dio, e a Montechiaro, come già detto, la cappella di Santa Caterina d’Alessandria. Culto orientale questo come quello di San Nicola, di cui abbiamo ricordato la cappella, e di Santa Maria Egiziaca e San Giovanni Elemosinario, di cui si custodiscono ancora le importantissime reliquie, giunte grazie all’egumeno Luca II nel XI secolo. Interessante sottolineare che sia il convento francescano che il santuario della Madonna del Soccorso sono stati eretti per volontà e a devozione di tutto il popolo. Per loro particolare devozione, alcune famiglie eressero propri luoghi di culto: Santa Maria del Rifugio, Sant’Anna, san Gerardo vescovo. Ma ancora tante e vive sono le forme della pietà popolare carbonese: è il caso, ad esempio, di san Donato soltanto recentemente acclamato patrono della comunità. Col tempo la chiesa madre ha ereditato sia ciò che apparteneva al monastero che i beni del convento. Un’eredità materiale ma soprattutto spirituale che le permette di essere sintesi di queste due realtà.

 M.: In merito al convento francescano si può dire che questo fu edificato, invece, in relazione all’antica presenza degli Spirituali, i cosiddetti “Fraticelli”. Infatti, a metà Cinquecento la popolazione, sostenuta dalla Diocesi, allora di Anglona, e dall’Universitas (il Comune dell’epoca), ebbe il desiderio di costruire questo cenobio, che si presentava come una sorta di “bonifica” rispetto a quella che era stata l’esperienza, giudicata eretica dal Pontefice Giovanni XXII nel 1323, degli Spirituali. La popolazione dunque con quest’opera volle far capire che prendeva le distanze dalla precedente esperienza dei “Fraticelli”. Al convento, poi, si lega anche una questione meramente politica: finalmente la Diocesi poté mettere piede a Carbone. Prima non le era consentito: il monastero lavorava in autonomia, dipendeva solo dalla Santa Sede di Roma, era affrancato sia dal vescovo diocesano sia dalle potenti famiglie che imperavano in larga parte delle Terre limitrofe, una su tutte i Sanseverino che esercitavano il loro potere nelle vicine realtà di Chiaromonte, Calvera, Senise e in gran parte dell’area sud-orientale dell’allora provincia di Basilicata, compresa tra i fiumi Agri e Sinni. A Carbone il feudatario era impersonificato nella figura del commendatario pro tempore del monastero-commenda dei Santi Elia e Anastasio, ma ancor di più dal suo procuratore, che risiedeva stabilmente sul posto e ne faceva le veci. Popolazione e clero secolare (nel 1752 si contavano ancora 23 sacerdoti e un diacono) erano del tutto assoggettati al monastero. Avevano anche degli obblighi materiali, dovevano versare una parte delle loro rendite, dovevano altresì andare a cantar messa quattro volte l’anno: la vigilia di Natale, il giovedì Santo, per la Pentecoste e il 20 luglio, giorno in cui si tenevano le celebrazioni in onore di Sant’Elia. Dalle fonti si può leggere: “à dal l’obidienza al Signor Commendatario o suo Procuratore”. E così anche la popolazione: quando una coppia si sposava, ad esempio, doveva portare in dono al commendatario una gallina. Gran parte degli abitanti erano braccianti o mezzadri delle proprietà monastiche, che si estendevano ben oltre il territorio carbonese, infatti, ancora a metà Cinquecento comprendevano, tra le altre: la grancia di San Bartolomeo a Taranto, quella di San Nicola a Rocca Imperiale, San Filippo a Senise, Sant’Angelo a Castronuovo così come ulteriori  proprietà fondiarie erano a San Chirico. La sottomissione della popolazione nei confronti degli abati, prima, e soprattutto dei commendatari, poi, spiega anche le ragioni dell’avversione dei carbonesi verso il monastero. Dopo la sua soppressione (avvenuta nel 1809) la gente del posto materialmente demolì o contribuì a demolire la struttura. La tradizione orale vuole che le pietre del monastero furono usate per costruire le case del centro abitato. Nel 1548, a seguito dell’edificazione del convento degli osservanti, la diocesi, seppure con molta difficoltà, poté entrare a Carbone trovando accoglienza da parte dei frati francescani. Il commendatario di Sant’Elia, infatti, esercitava sia la giurisdizione episcopale che quella temporale, e il monastero, nell’amministrazione delle terre e dei beni carbonesi e non solo, rimase indipendente da vescovo (con il quale continue furono le liti e numerosi gli episodi di tensione documentati dalle fonti) fino al 30 gennaio del 1717. Esso assoggettò e sottomise tutti i poteri, risultando il perno accentratore dell’intera vita economica, sociale, politico-istituzionale e religiosa. Come ampiamente evidenziato anche in altri studi, infatti, Carbone si contraddistingueva per via del suo peculiare contesto di feudalità ecclesiastico-monastica, i cui elementi caratterizzanti furono: la parcellizzazione fondiaria, una ricorrente conflittualità interecclesiastica sia tra i monaci e il clero locale sia tra quest’ultimo e l’autorità vescovile, il tutto nel quadro di un microsistema di intrecciate rivendicazioni giurisdizionali.

 

Il vostro lavoro vi ha permesso di tracciare anche la storia delle famiglie di Carbone.

F.: E’ stato uno degli aspetti più piacevoli e interessanti. Carbone nell’immaginario collettivo, era un semplice centro legato al monastero. Tuttavia abbiamo avuto modo di scoprire quanto la società carbonese, specialmente tra Seicento e Ottocento, sia stata aperta e vivace. Qui si stabiliscono i Castelli da Napoli, gli Innecco da Lagonegro, i Molfese da Sant’Arcangelo e altre famiglie ancora. L’agiatezza economica di cui godono famiglie come queste ma anche dei Giordano, dei Rocchi, degli Spena, dei De Nigris ecc., si esprime nella ricercatezza artistica delle opere commissionate. Certo, le donazioni erano mirate alla salvezza dell’anima propria o dei familiari o, semplicemente, a dare maggior rilievo al proprio luogo di sepoltura ma innegabile è l’apporto dato da questi lasciti al patrimonio della comunità. La domanda dei ricchi committenti poté, comunque, essere soddisfatta dall’offerta delle tante e abili maestranze locali: uno per tutti, l’intagliatore Pasquale Cappellano che eseguì la preziosa ancona lignea conservata in chiesa madre. Il riflesso del benessere di cui godé questa società è riscontrabile, ancora, nella notizia, riportata sul catasto onciario del 1742, del dodicenne apprendista orafo, Elia di Marca, appartenente ad una famiglia di contadini.

Nel vostro percorso di studio, c’è qualcosa o un momento che vi ha creato stupore?

M.: Il termine stupore, ripensando al percorso di studio e di ricerca svolto, lo collego ad un’espressione ben precisa, “Il viaggiatore cede il suo timore all’ammirazione”. Queste le parole della ricercatrice britannica Gertrude Robinson, che visitò Carbone almeno in due circostanze tra il 1928 e il 1930, superando ogni ostacolo e traversia legato al raggiungimento di un luogo poco collegato con quella che lei chiamava “la grande città”. Timore e ammirazione, l’uno preparazione dell’altra e l’altra fioritura del primo. Il timore reverenziale è dovuto alla consapevolezza di trovarsi di fronte alla storia di quei luoghi e alla natura incontaminata. Questa viene riconosciuta come scenario indispensabile per capire l’opera dei monaci e dei frati e del popolo carbonese, agricoltori e artigiani, che vivevano in perfetta sincronia con una natura prospera e rigogliosa. A tale proposito la studiosa annotava: “Le selve non sono scure o tristi ma splendenti di luci e fiori e dolci del profumo di fragole selvagge che le tappezzano. Non vi è silenzio opprimente fra esse perché gli usignoli vi cantano tutto il giorno. L’aria è leggera e così chiara e bella che la vista sembra disperdersi quasi all’infinito”. La sua esperienza fa capire come chi arriva da fuori a volte ha uno sguardo diverso rispetto a quello “abituato” di uno del luogo. Anche oggi occorre lasciarsi interpellare dalle opere d’arte concentrate a Carbone, dall’ambiente in cui sono inserite, con il messaggio che riferiscono, con le storie di chi le ha volute e di chi le ha forgiate. Queste opere, piccole e grandi, legate ai basiliani, ai francescani e ai preti secolari alti prelati e non solo ci insegnano che occorre partire dai beni culturali ecclesiastici di Carbone nei loro colori e nelle loro forme, per scorgere mondi di valori universali e orizzonti più ampi spalancati davanti all’uomo e allo spirito creativo di chi li ha voluti e di chi li ha realizzati, ma anche di chi li ha preservati nei secoli.

F.: Quando sono stato chiamato a far parte di questo team, non conoscevo molto di Carbone sebbene, arrivassi da un Comune limitrofo. Per me è stato un esperimento: lavorare insieme per provare a portare alla luce e interpretare quel che è stato il passato di una comunità, le cui testimonianze sono ancora visibili ma trascurate perché abituati a guardarle con occhio pigro e spento. Sapevo in minima parte la storia del monastero, ma non mi ero mai reso conto di quanto davvero fosse stato importante dal punto di vista culturale. Mi sono approcciato con viva curiosità allo studio dei documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Potenza. Mi ha sorpreso leggere e scoprire, di volta in volta, non la “semplice” storia ma la gente di Carbone. L’energia e i tanti sforzi di una comunità antica in un rapporto con il divino sempre vivo. La premura con cui si cercava di difendere un patrimonio percepito come immenso e, soprattutto, collettivo. Oggi siamo abituati a vedere ovunque “il bello”, per nostra fortuna. Questo, però, ci ha assuefatti tanto che, a volte, ci dimentichiamo cosa sia. In passato, invece, di esempi ce n’erano pochi: preservarli era questione d’onore. Devo dire che l’intero lavoro è stata una scoperta dietro l’altra ma quel che più ci ha fatto strabuzzare gli occhi è l’attribuzione della tela di Elia sale al cielo sul carro di fuocoBernardino Cesari, fratello di Giuseppe. Di Bernardino, si conosce al mondo una solo opera firmata: la seconda potrebbe essere a Carbone

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