“Oppure” è la via d’uscita alle nostre convenzioni, alle verità che accettiamo comunemente. E’ un modo diverso per catalogare le cose che ci accadono. Un’alternativa all’omologazione e alle scelte che l’uomo è chiamato a fare per diventare tale. E’ quel modo di vedere il mondo con gli occhi di un bambino, sempre alla scoperta di cose nuove. Ed è il “viaggio” che ci fa fare Costantino Dilillo con la nuova opera letteraria che, in undici quadri, strizza l’occhio alla filosofia della “Esitenza inautentica” di Martin Heidegger.
Costantino Dillo, originario di Irsina, vive a Matera da oltre cinquant’anni. Ha lavorato in banca per quaranta anni. Con lo pseudonimo (w/cody)* disegna vignette e scrive articoli satirici e di costume. La sua produzione letteraria è vasta: i racconti Presto (Il Salice editore, 1990 – “Premio Calabria ’79 Riviera del sole”), Città Calva (Palomar edizioni, 1997); Nuove leggende lucane (BMG Edizioni,1999); 180 – I garanti (Nobile editore, 2002); Pistacchi & frottole; altri tradotti in greco sono in via di pubblicazione ad Atene. Le poesie: Tele di ragno (Edizioni Gabrielli, 1978); Anime fossili (Antezza Editori, 2017); Greggi di ginestre (Edizioni Il Faggio, 2019 – “Menzione speciale della giuria al Premio EquiLibri – Assoc. Piazza Navona 2019”). Il saggio antropologico: Irsina. Credenze, usanze tradizioni (Giannatelli edizioni, 2014). E poi il teatro: A-Hum specchio d’amore (2006); I predatori delle tre porte (2015); Piccianello crocevie (2016).I dieci anni trascorsi dal suo ultimo romanzo, “Un greto di ciottoli”, giallo ambientato a Matera, non sono trascorsi nel silenzio. Anzi, oltre a scrivere e disegnare, come dice lo stesso Dilillo “Ho fatto tante cose, fotografie e lunghe camminate”.
Oppure è un elegante volumetto che ha pubblicato con Edigrafema, affermata cooperativa editrice fondata da Antonella Santarcangelo. Edigrafema è una bella realtà editoriale; sul suo sito leggiamo che nasce come uno speciale circolo di scrittori e lettori e creativi, e che molte delle opere editate sono state premiate in prestigiosi concorsi letterari. I nuovi racconti di Costantino Dilillo sono stati raccolti nella collana di narrativa “luciincittà”.
Di Oppure parliamo con il suo autore.
Partiamo dal titolo: “Oppure” lascia spazio a un’alternativa, offre una chance ulteriore, una scelta. Perché?
Discutiamo la convinzione di possedere i parametri in cui catalogare ciò che accade? È una delle domande aperte del narratore in “Oppure”, che è il racconto chiave della raccolta, promosso a darne titolo perché contiene in sintesi molti dei temi che compaiono nelle 150 pagine del libro. In grammatica oppure è una congiunzione, una congiunzione disgiuntiva, qualcosa cioè, che nel mentre congiunge due concetti, fatalmente li separa e indica una diversa via possibile rispetto ai prevedibili itinerari dell’omologazione. In questi racconti, attraverso l’ironia e il paradosso suggerisco di riflettere su come le “verità” che costituiscono la struttura delle relazioni umane e sociali, quelli che ci paiono i concetti base della “realtà”, siano solo abitudini mentali, rassicuranti parametri che placano le nostre coscienze, una sorta di salvagente nel fiume dell’esistenza. L’oscuro ci turba, ci desta angoscia e abbiamo quindi bisogno di dare nome all’ignoto, di ricorrere ad etichette rassicuranti che ci tranquillizzino: “E tutto passa perché il babau adesso ha un nome”, dice l’io narrante in “Oppure” e spesso basta poter dare un nome all’ignoto, all’inconsueto per meglio digerirlo oppure invece per demonizzarlo e condurlo a morte, affinché cessi di turbare le nostre certezze. Questo tipo di morte compare nel racconto “Sopra l’erba”, in modo esplicito benché simbolico, e compare in altri racconti sotto altre forme.
Le sue storie sono ispirate da fatti veri, da situazioni personali?
No, non c’è nulla di effettivamente autobiografico nei miei racconti, situazioni e personaggi sono totalmente immaginari; quel che c’è di vero è lo sfondo, il contesto storico di un certo Novecento che è finito ma non è ancora passato. Realistiche sono le atmosfere e le coordinate esistenziali dei personaggi colti in diverse epoche del secolo scorso e di questo inizio di millennio. Possiamo dire si tratti di una biografia collettiva, ecco, narrata attraverso gli occhi dei personaggi nelle loro diverse età, infanzia in testa.
Quali sono i temi che tratta?
In questa raccolta, forse più che nelle altre, racconto con accenti diversi quella che Heidegger chiamava la esistenza banale, o meglio “la vita inautentica”, l’esistenza umana nel mondo nel quale siamo stati gettati a vivere (geworfenheit), fatta di conformismi, chiacchiere, pregiudizi, coazione a fare esattamente quello che fanno tutti gli altri; il personaggio Mattia, ne “Il calendario” ne è forse la incarnazione, perso nel concatenarsi di eventi, ciascuno conseguenza e premessa necessaria dell’altro. La corsa ad omologarsi alle istanze del potere e altre miserie di personaggi umani-troppo-umani, che a volte percepiscono il vuoto esistenziale, o la ingannevolezza del tempo. Nelle pagine di Oppure l’infanzia sembra essere l’unica fase della vita umana in cui ci si avvicina alla vita autentica, quella che ci vede e ci rende capaci di ribellarci agli schemi oppressivi, di opporci davvero al conformismo, all’abitudine, alla irragionevole omologazione delle menti, all’assurdità di tanti comportamenti umani. Ma non sempre, purtroppo: il conformismo non ha età e anche l’infanzia risulta non sempre immune dalla corruzione del potere, senza attendere l’età adulta.
L’arma che usa è quella dell’ironia. C’è un motivo o una filosofia personale dietro?
Ironia e umorismo, a volte nero, sono le mie linee di lettura della realtà che di conseguenza utilizzo per facilitare la comunicazione con il lettore; marcare gli aspetti grotteschi dei comportamenti umani, e riuscire a riderne, sono convinto sia un buon terreno sul quale incontrare la curiosità di chi legge. Serve anche a smontare un po’ la prosopopea ridondante degli addetti alla manutenzione del potere, di quel tanto mondo arrogante ed egoista dietro il cui giganteggiare spesso si annida solo miseria.
Qual è il messaggio che vuole dare con Oppure?
No, messaggi, no, non è il mio mestiere, io racconto delle cose e, come sempre accade, nei racconti di ciascuno emerge un filtro interpretativo: la realtà non esiste, il colore del mondo dipende dal colore delle nostre lenti, questo è il mio relativissimo pensiero. I rapporti umani nella società liquida di Bauman sono filtrati dal consumismo, il patto sociale che secondo Freud comportava “Il Disagio della civiltà” – minore libertà in cambio della sicurezza –, sembra ormai sbiadito, dopo un secolo di dominio assoluto della “infinita saggezza” del mercato, regolatore e santo, le cui leggi danno a una umanità assuefatta non solo merci, ma anche una “identità” concetto quanto mai pericoloso. Qui abbiamo perduto finanche la percezione di quel disagio: più che alla “libertà” oggi si anela all’ultimo modello di un certo telefonino e nel rutilante caleidoscopio delle offerte speciali, il vendere e il comprare sono il metro di tutte le cose, e il vendere se stessi è divenuto socialmente utile. Gli umanesimi non li ha sconfitti l’Anticristo, ma la Ragioneria. Con un esplicito rimando a Bulgakov, in una favola di stampo classico con animali protagonisti e la morale in coda, rimarco l’ambivalenza di tanta parte della nostra società che, a parole ispirata al solidarismo cristiano, considera gli umani nei barconi dall’Africa dei campioni senza valore, come già era accaduto per gli Indios dopo la scoperta dell’America che per comodità di sfruttamento, e per dar pace agli animi sensibili, vennero classificati come minus rispetto all’uomo bianco europeo. La retorica dei buoni sentimenti è una spessa coltre che stendiamo sull’ambivalenza della nostra anima. Ad avercene una.
Dieci anni dall’ultima tua fatica letteraria che era un giallo: questo tempo è servito a farle cambiare genere di scrittura?
Sì, fu il mio primo romanzo e anche il primo giallo ambientato a Matera, “Un greto di ciottoli”, una lunga indagine del mio “ricercatore” Pasquale Scanzano nei suggestivi vicoli dei Sassi di Matera. Il genere giallo ha un pregio: l’intreccio accompagna la curiosità del lettore verso temi, riflessioni, descrizioni, vicende umane che passano con passaporto speciale nella mente del lettore. Da quei giorni non ho cambiato generi, ho forse cambiato il modo di scrivere. Sino ad allora buttavo giù un racconto mosso da un impulso, da un’immagine, da una battuta, da un dolore; elaborare un romanzo, operazione molto più complessa, mi ha insegnato a pianificare i testi, a prendere nota degli “impulsi” e a convogliarli in una elaborazione che tiene conto anche dell’interlocutore immaginario che sta dentro la mia testa: a lui sto scrivendo: voglio farlo ridere? Voglio commuoverlo? Voglio irritarlo? Prenderlo in giro? E a ogni pagina il suo linguaggio.
Romanzi e racconti non sono gli unici generi con cui si cimenta: c’è il teatro, la poesia, ci sono i disegni…
Forse è l’applicazione del software umano: imitazione. In un saggio di Oliver Sacks su “Il sé creativo” si dimostra come sia proprio l’imitazione, dote umana già presente nella programmazione genetica, a indurci sin dalla prima infanzia, a imitare quello che ci colpisce e incuriosisce. Mi piacevano i film e sognavo di fare il regista, mi piaceva leggere e presi a scrivere, mi piacque il teatro e scrivevo da ragazzo le recite per le scolaresche di mia madre. E così per la poesia: ne ho pubblicato due raccolte, cosa che non avevo più fatto per molti anni. Dopo “Tele di ragno” del 1978, ho atteso il 2017 per pubblicare “Anime fossili”, libriccino illustrato da mie fotografie di Matera, e “Greggi di ginestre”, uscito l’anno scorso, ben accolto e premiato, illustrato da dipinti di Ester Negretti. Quella del teatro, invece, fu una scommessa: Massimo Lanzetta del Teatro dei Sassi mi propose di scrivere un testo da rappresentare in una rassegna teatrale a Parma; nacque così “Ahum – Specchio d’amore” che andò in scena a Parma e a Matera con un buon successo. Con la regia ancora di Lanzetta portammo all’Expo 2018 di Milano, con l’Ente Parco di Matera, un mio testo teatrale ispirato alle vicende delle chiese rupestri della nostra Murgia. Qualche altro mio piccolo testo è stato rappresentato in varie occasioni a Matera e in provincia e devo dire che partecipare alla preparazione di quegli spettacoli fu per me esperienza umana di grande importanza. I disegni? Mi piace tracciare segni sulla carta, un vizio preso a scuola e riscoperto dopo, nelle lunghe e noiose riunioni di lavoro: case, Sassi, strade e quegli stralunati personaggi che uso per le vignette: e ritorniamo all’ironia, alla satira.
Qual è il ruolo che ha la sua terra, il mondo che la circonda quotidianamente nei suoi scritti?
Da queste terre si parte, si va via, i nostri figli continuano a emigrare come già i nostri nonni: al posto della valigia di cartone usano il trolley, ma vanno via, studiano altrove e là rimangono ad arricchire con la loro preparazione e professione quelle culture, quelle terre, privando le nostre di quella nuova linfa culturale indispensabile al cambiamento, alla innovazione, alla crescita. Qui, della globalizzazione, sembra essere giunto solo il consumismo, il febbrile acquisto di merce prodotta altrove. Questo contesto condiziona l’atmosfera culturale e sociale di queste terre, che in certe contrade sembra conservare l’impianto feudale di mille anni fa, ma con la parabola sul tetto e lo smartphone in ogni tasca. Penso che la produzione letteraria da sempre sia stata attrezzo delle classi dominanti; in Europa, dall’Ottocento in poi, letteratura è la borghesia che racconta se stessa in diverse forme narrative. L’eccezione di Pasolini con Ragazzi di vita, e di pochi altri, se eccezione fu, rimase pur sempre un prodotto della borghesia dedicato alla borghesia e, come tante altre opere, prove di antropologia di una civiltà più evoluta che “studia” o narra, un’altra civiltà considerata, secondo i loro parametri, più arretrata. Con “Gli autobus erano verde scuro” cerco di raccontare, senza l’indulgenza dell’osservatore compiacente, le periferie della società borghese, quella umanità che con i suoi sentimenti, le passioni, la sua dignità, le sue miserie, la quotidianità esistenziale, ha un impianto etico difforme da quello borghese, quella umanità che non compare nelle copertine patinate ma, mondo nel mondo, vive contesti antropologicamente separati. Questo mondo cerco di raccontarlo con un approccio da interno a quell’ambiente, e utilizzo infatti, uno stile e un tono diversi rispetto agli altri racconti.
Quali sono i progetti che sta mettendo a punto dopo Oppure? Racconti o romanzo? O c’è altro?
Un romanzo con ancora protagonista il mio investigatore Pasquale Scanzano potrebbe a breve arrivare in libreria e un altro lo sto scrivendo ormai da qualche mese. Un paio di miei racconti tradotti in greco stanno per essere pubblicati ad Atene, virus permettendo. Poi: qualche racconto, poesie. Non so. Pavese lo diceva assurdo, io non lo direi, ma sempre vizio è, quello di scrivere. Di fumare ho smesso, di scrivere non ancora.