“Con i miei piatti racconto una storia, un territorio. Cerco di incuriosire la gente”. Luigi Diotaiuti, chef e patron del ristorante “Al Tiramisù” di Washington, le sue radici, la sua storia e quella della sua famiglia, non le mette solo sulla tavola del ristorante. Ma in ogni cosa che decide di fare.
“Nel mio menu gli spaghetti alle vongole li ho chiamati Spaghetti Maratea. Chi vuole ordinarli mi chiede di che si tratta. E io posso raccontare che Maratea è il posto dove sono andato a scuola. Che è la più bella località del Mediterraneo, dopo Taormina. Li incuriosisco. E quel piatto mi aiuta a raccontare una storia, la mia storia. Un territorio, la mia terra”.
Quel territorio, come la sua trascinante simpatia che ti cattura subito, Luigi Diotaiuti ce l’ha nel dna: la sua regione, la Basilicata, il suo paese, Lagonegro. Si avverte anche a migliaia di chilometri di distanza. E’ grazie a lui se l’Unesco ha inserito la Transumanza nella lista dei beni immateriali patrimonio internazionale per l’Umanità. Ed è grazie a lui se una delle più importanti Università di Washington ha deciso di dedicare a questa antica attività contadina, corsi di studi e approfondimenti. E’ grazie all’associazione-fondazione “Basilicata a way of living”, che lo chef, insieme al fratello Antonio, ha realizzato apposta per convogliare energie, risorse e attività.
Dunque tutto è cominciato a Maratea.
Si, nel 1976, con la scuola alberghiera. Poi, come accade nel nostro mestiere, ho cominciato a girare l’Italia, a fare le stagioni. Sono stato in Costa Smeralda, con il consorzio dell’Aga Khan, al Bauer di Venezia, al Giorgio V di Parigi, sulle navi e poi a Montecatini.
Dov’è rimasto a lungo…
Erano gli anni Ottanta, sono stato una decina di anni a Montecatini Terme, tra il ristorante del Grand Hotel Bellavista, il Gourmet e altri locali. Devo ammettere che il mio percorso professionale è stato stupendo, ho lavorato in posti da sogno. Ed ho avuto la fortuna di scegliere sempre io il posto di lavoro. Se mi piaceva facevo di tutto per andarci a lavorare. A quei tempi gli chef andavano a fare esperienze in Spagna, in Francia o, di inverno, in Svizzera e a Londra. Il sogno di tutti era lavorare a Venezia e in Sardegna.
Tappe che lei ha fatto. Ma poi decise di “fermarsi” a Montecatini Terme.
Montecatini era una meta ambita. L’interesse per la professione di chef era in crescita. Era il periodo in cui da Montecatini si facevano tante trasmissioni televisive della Rai. C’era Domenica In e Pippo Baudo, fu il primo a portare i cuochi in televisione. Cominciò con Paolo Milani uno chef del Forte Village, ma fummo un’ottantina a finire davanti alle telecamere. Molti erano del Bellavista di Montecatini.
Quand’è scattata la molla che l’ha portata negli Stati Uniti?
Negli anni Novanta, ma confesso subito che l’America è stato uno dei luoghi che non ho scelto io, com’è avvenuto per gli altri. Forse l’unico. Dopo tanti anni di successi professionali, stavo meditando sul futuro. Per arricchirmi ancor più professionalmente, andai a lavorare al Gourmet di Montecatini. Ci rimasi per tre anni. Un tempo record per quegli anni, per chi faceva la mia professione. In quel posto mi resi conto di cosa volesse dire fare lo chef. Il proprietario mi diede le chiavi del ristorante. Me lo sentivo mio. Per l’Italia era un periodo economicamente fervido. Avevamo gente facoltosa tra i nostri clienti. Ricordo che per soddisfare le loro esigenze, andavo all’aeroporto di Pisa prendere gli scampi freschi che arrivavano dalla Tunisia o dalla Sicilia. Avemmo una bellissima recensione dalla guida Michelin, mi fruttò un doppio regalo da parte del proprietario del ristorante: una medaglia d’oro e un giorno libero in più alla settimana. D’agosto arrivò un americano che cercava uno chef. Qualcuno gli aveva segnalato il mio nome, venne a farmi una proposta. Dissi di no, a quel tempo l’America non era ambita come meta per la mia professione. Ma dentro di me stava scattando qualcosa. Mi sentivo a un bivio: sentivo che era giunto il momento di pensare al capitolo successivo alla mia esperienza montecatinese. Il dilemma era: o apro un ristorante tutto mio o compro una casa. A quel signore dissi anche che d’agosto, con gli chef impegnati nelle stagioni estive, non avrebbe trovato nessuno. E così accadde. Tornò alla carica e intanto aveva instillato in me un pizzico di curiosità: sei mesi dopo ero in America. Doveva essere l’ultima esperienza all’estero, poi mi sarei fermato.
Invece sono trentuno anni, ormai, che vive e lavora negli Stati Uniti.
Sì, non andò così. Il 1° aprile del 1990 ero a Washington. Partii solo dopo aver trovato un sostituto adeguato per il Gourmet. Il proposito del mio viaggio in America era di cambiare il menù del locale, collaudarlo per cinque o sei mesi, poi sarei andato a fare un’altra stagione estiva in Sardegna. Invece rimasi un anno. Me ne tornai in Italia l’anno dopo, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra nel Kuwait. Non volevo stare in un paese che era in guerra. Andai prima al Flamingo, in Sardegna, poi al Casa degli amici, a Pistoia. Alla fine tornai negli Usa, ottenni la carta verde e ora ci ho messo radici. E’ quasi casa. Dico questo perché so che prima o poi tornerò in Italia.
Anche a distanza però, segue gli eventi italiani e della sua regione?
Ho una Fondazione in Basilicata, si chiama Basilicata a way of living. Organizziamo eventi culturali. Uno dei miei progetti, la Transumanza è diventata Patrimonio dell’Unesco. Io sono cresciuto in campagna, con 250 capre e cento mucche podoliche, per me la Transumanza è la mia vita, la storia della mia famiglia. Negli anni Sessanta quando le mucche vennero riconosciute dall’Europa, partì un censimento. Papà nascose i vitellini, perché non si fidava, pensava che così avrebbero messo più tasse. Adesso, il pensiero che lui dovette nasconderle e che lo scorso anno, grazie al mio lavoro, abbiamo ottenuto il riconoscimento Unesco, mi riempie d’orgoglio. Da 20 anni promuovo la Basilicata nel mondo. Una cosa che sento in me, lo faccio con energie e risorse personali, la gratificazione è stupenda. Cinque anni fa iniziammo con questo progetto. Ho sempre insistito, fino a che la Regione prese un protocollo che aveva realizzato, ma poi abbandonato, il Molise e ripropose la domanda all’Unesco per il riconoscimento. In quella proposta c’è il mio impegno, la mia insistenza nel crederci e questo mi riempie d’orgoglio.
C’è un murales che lo ricorda, anche nel suo ristorante a Washington. Ha incuriosito i suoi clienti?
Due anni fa, alcuni docenti della George Washington University, una delle tre università più importanti di Washington si sono incuriositi sul mio progetto. Venivano a mangiare nel mio ristorante, hanno voluto saperne di più. Quando hanno capito di che si trattava mi hanno messo a disposizione dei ragazzi, ricercatori esperti di international business, per studiare e perfezionare il mio progetto. Loro dicono che può essere esportato anche in altri Paesi. Questa collaborazione è avvenuta per due semestri di fila. E’ stato un grande endorsement.
Lei è impegnato socialmente anche per gli Stati Uniti.
Volontariato e beneficenza sono una componente importante per la nostra famiglia. Papà raccontava spesso un aneddoto, per le feste: “un signore a Natale mangiava lupini e si lamentava per com’era ridotto male. Buttava le bucce per terra e, voltandosi, si rese conto che c’era un’altra persona, alle sue spalle, che lo seguiva e raccoglieva quelle bucce per mangiarle. A quel punto pensò: devo smettere di lamentarmi”. La morale è che quando siamo disperati, bisogna pensare che in quel momento c’è qualcuno che sta peggio di noi e se possiamo, dobbiamo fare qualcosa per loro. L’associazione e la fondazione nascono da questa filosofia di vita.
Così, durante la pandemia, con il suo ristorante chiuso, ha cercato di aiutare chi aveva bisogno…
Nella prima fase del lockdown abbiamo chiuso il 15 marzo. Il venerdì successivo ho cominciato a fare queste donazioni benefiche fisse: ogni venerdì ho portato alla McKinnen House, che è un luogo che accoglie circa 35 persone con problemi seri, senza un posto dove andare, gestito dall’Associazione dell’Università Cattolica 35 pasti completi. Poi ho allargato questa esperienza ad alcuni ospedali di Washington, a tre stazioni di polizia e tre dei pompieri. Siamo andati avanti per tutto il periodo in cui nessuno più usciva da casa. Ed abbiamo ripreso, dopo la parentesi estiva, un paio di settimane fa. Qualche ente ci chiama per capire come funziona. Io chiedo solo il numero dei pasti che occorrono.
Dev’essere una bella sensazione sentirsi utili per gli altri.
Una cosa che mi ha riempito di gioia è aver potuto fare lo stesso con la George Washington University. E’ una istituzione che ha anche un importante ospedale. Pensate che è la struttura alla quale ci si rivolge anche per le emergenze che riguardano la Casa Bianca e il presidente. Portare a loro, tra medici e dottori, 45 pasti, è stata un’emozione: loro mi hanno aiutato, nella gestione del mio progetto per un anno. Adesso ero io ad aiutare loro. Ecco, questa è la sensazione più bello che questa pandemia mi lascerà dentro.
Veniamo al suo ristorante: di Italia cosa c’è Al Tiramisù?
Non lo dico io, ma la critica, i clienti e soprattutto gli altri ristoratori italiani: è il più autentico che c’è a Washington. Se vuoi mangiare i maccheroni strappati sull’anatra, li mangi qui, una ribollita.. c’è. Ogni tanto mi diverto. E’ un ristorante contemporaneo italiano. Non regionale. Ho un menù piccolo, ma che mette in evidenza i prodotti di stagione. Spesso mi chiedono spiegazioni sui piatti che ordinano, così io posso raccontare un territorio, la mia storia, la mia Lucania. I ravioli che faccio non sono con spinaci e ricotta, come tradizione, ma di caciocavallo e verza. Tanti mi chiedono: cos’è il caciocavallo? E un prodotto protetto, racconto. Mio papà li faceva: racconto come, il perché di quella forma curiosa. E poi racconto loro la transumanza. Uso i miei piatti per raccontare una terra. Ogni giorno ho 20-25 piatti da raccontare. Succede anche con il pesce. Lo tengo in un vassoio che porto ai tavoli, per far scegliere ciò che uno desidera. E così, racconto cosa sono. Ci sono persone anche ricchissime, con importanti esperienze alle spalle, che non hanno mai visto una sogliola o un sea bass, un branzino… Nella ristorazione ci sono un paio di elementi importantissimi: uno è la visibilità, l’altro è l’odore, il gusto.
Qual è il prodotto lucano che non manca mai?
Il caciocavallo. Si fa in pochi posti, è bello da vedere. Quando lo mostro mi sento dire: what is it? La forma non esiste altrove, tutti restano meravigliati, lo vogliono assaggiare subito.