La notte tra il 22 e il 23 marzo, nella terza sessione del carcere Marassi di Genova c’era un gran trambusto. Il rumore di passi veloci, le celle che si aprivano, guardie che scandivano nomi di detenuti ad alta voce. Una conta che non aveva spiegazione. Era accaduto altre volte; mai con quell’agitazione che arrivò anche nella cella numero 172. Il carceriere aprì la porta e chiamò, senza neppure entrare: “ Capitò, Panevino”. I due detenuti, che dividevano la cella con altri prigionieri, si alzarono in piedi. Assonnati e preoccupati di capire quel che stava accadendo.
Fu la preoccupazione di tutti, una ventina di detenuti, che vennero raccolti nel cortile. “Ci portano in un campo di concentramento – disse uno di loro – altrimenti perché ci fanno lasciare qui gli indumenti e i cappotti”.
“No, ci uccideranno!”, rispose un altro. Anche se con molte difficoltà, in carcere arrivavano alcune notizie. E quel pomeriggio, in molti chiacchieravano di un’azione che c’era stata all’alba, in un paesino poco distante: a Cravasco di Campomorone. C’era stato uno scontro a fuoco tra partigiani e soldati. E nove tedeschi erano stati uccisi. “Si vorranno vendicare di quel che è accaduto stamani”, discutevano ancora i prigionieri, in attesa di conoscere quel che sarebbe successo.
Nicola Panevino, il giudice del tribunale di Savona che era finito in carcere alla fine dell’anno precedente, accusato di essere “connivente” con i partigiani, se ne stava zitto. Non era un tipo taciturno. Tutt’altro: era loquace, aperto, gioviale. Sempre disponibile alla chiacchiera e al confronto. Cercava solo di tranquillizzare il suo compagno di cella Capitò. E pregava. Non aveva mai smesso, neppure un giorno, da quando lo avevano arrestato, il 15 dicembre, a Savona.
Nicola aveva 34 anni. Era nato a Carbone un piccolo paese ai piedi del Pollino, in Basilicata dove suo padre, anch’egli magistrato, all’epoca era il segretario comunale.
Seguì la famiglia nei tanti spostamenti in Italia: fece gli studi classici a Campobasso, l’Università a Napoli. Si laureò in giurisprudenza, ma durante il servizio militare si innamorò della Cavalleria. Frequentò la scuola militare di Lucca, avrebbe voluto seguire quella carriera. Ma il padre lo voleva magistrato. E le sue insistenze alla lunga fecero breccia sul figlio che, sulle orme paterne, cominciò a girare per l’Italia: primo incarico a Borgia, in provincia di Catanzaro, poi in Sicilia, a Napoli. Quando vinse il concorso, voleva andare a Roma, sognava la grande città. Scelse Savona, perché un amico lo convinse. E perché aveva il mare, come la sua Napoli.
E’ qui che entra in contatto, proprio dentro il tribunale, con chi ha deciso di combattere il fascismo e l’occupazione tedesca. Aderisce a Giustizia e Libertà, il movimento die Fratelli Rosselli. Dopo l’8 settembre entra nel Partito d’Azione. La sua personalità e anche il suo ruolo, gli permettono subito di fare breccia sugli altri: viene scelto come rappresentante del PdA nel Comitato di Liberazione nazionale. Ne diventa anche il capo. Si occupa della gestione politica della Resistenza: fa da collegamento con i vari Comitati provinciali e con quello regionale di Genova, tiene i contatti con le Brigate che combattono sui monti. La Liguria è una regione strategica. I tedeschi temono che gli Alleati possano arrivare dal mare, o addirittura dal confine francese, oltre che dall’interno del Paese. Così è costantemente pattugliata e controllata.
Anche se il magistrato si muove con attenzione, in un luogo e in un’epoca in cui la delazione è pane quotidiano, la sua attività rischia di essere scoperta. Questo preoccupa tantissimo la moglie Elena, che Nicola ha sposato poche settimane prima di trasferirsi in Liguria, portandosela con sé. E la preoccupazione, insieme alla richiesta d’attenzione, crescono nella donna, dopo che era arrivata Gabriella, la loro primogenita.
Finisce così in carcere il giudice istruttore Panevino. Lo accusano anche di essere l’autore di uno dei tanti manifesti apparsi sui muri di Savona e che invitano i cittadini a ribellarsi a tedeschi e fascisti.
Nel carcere Sant’Agostino di Savona resta qualche settimana poi lo spostano a Genova, a Marassi, carcere controllato dalle Ss tedesche.
Viene portato alla casa dello Studente: da convitto per gli studenti che arrivavano da fuori era diventato il quartier generale dei tedeschi. Un luogo di dolore. Nicola viene torturato. Vogliono i nomi dei suoi compagni. Non ci riescono.
Dal carcere Nicola Panevino, grazie anche alla complicità delle guardie e ad alcune astuzie, riesce a scrivere e inviare a casa delle lettere.
Sono piene di fede, di amore per la sua famiglia, di ottimismo personale e per il paese. Ne scrive una anche il 21 marzo, due giorni prima di quella notte tumultuosa. Non sa che è l’ultima.
Il gruppo radunato nel cortile del carcere viene obbligato a salire su un camion. I militari li ammanettano a coppia. Durante il tragitto due di loro trovano il momento giusto per gettarsi dal camion e fuggire. Gli altri vengono portati a Cravasco. E costretti ad andare a piedi per un viottolo di campagna. Tra loro c’è Tino Quartini, è senza una gamba, giel’ hanno amputata mesi prima. I tedeschi gli gettano via anche la stampella, lo costringono a proseguire strisciando.
Quando arrivano al cimitero di Cravasco, tutti si rendono conto di quale sarà il loro destino: era lì che il mattino del giorno prima erano stati uccisi i soldati tedeschi. Ed era lì, che il giorno stesso, i tedeschi avevano messo a ferro e a fuoco le abitazioni della frazione di Cravasco.
Li divisero in due gruppi: i primi li fucilarono senza togliere loro le manette. Lo fecero con il secondo gruppo, ma non per pietà: capirono che altrimenti avrebbero dovuto recuperarle quando erano sporche di sangue.
Nel secondo gruppo, dopo la prima raffica di fucile, caddero tutti. Ne rimase solo uno, in piedi, schivato dai colpi: Arrigo Diodati. Il plotone sparò ancora. Arrigo cadde, finì sotto i corpi degli altri compagni alcuni ancora in vita che si lamentavano. Capì che era stato solo ferito, di striscio alla gola. Non se ne accorsero i tedeschi, che lasciarono lì quei corpi, in bella vista, come monito per gli altri. Sarebbero andati a seppellirli in seguito. Arrigo, restò immobile, fino a che non fu sicuro che se n’erano andati tutti. Trovò rifugio su uno dei cipressi che
svettavano dall’intento del cimitero. E poi, curato dalla gente del posto riuscì a raggiungere i suoi compagni che combattevano, in montagna. A lui si deve, nel dopoguerra, la nascita dell’Arci e dell’Uisp.
La figura di Nicola Panevino, i motivi della sua scelta, la sua fede incrollabile e l’apporto alla Resistenza, le lettere scritte alla moglie e alla figlia, sono raccontate nel libro “La scelta difficile” di Emilio Chiorazzo, edito da Edigrafema per la collana DietroFont.