C’è l’atmosfera del passato. Di un’infanzia povera ma felice. C’è la storia delle nostre radici, di abitudini ormai dimenticate, di dolori antichi, ma anche di belle risate. E, soprattutto c’è un filo conduttore che ci accompagna dalla prima all’ultima pagina: il cibo, i sapori e le sensazioni che sprigionano.
“Racconti del cuore che fanno bene all’anima e ricette dell’anima che fanno bene al cuore” parla di questo. Il titolo è un po’ alla Wertmuller, ma il contenuto è un album di ricordi (i racconti) e di sapori (le ricette) che affondano nella infanzia di Rosanna De Carlo, scrittrice e chef, originaria di Ruoti e adesso romana di adozione. Ma anche tanto altro. “Se fossero stati solo racconti, il riferimento al cuore è per il fatto che parlano della mia infanzia, un tempo che io considero felice”.
Invece ci sono anche le ricette: e quelle toccano l’anima…
A dire il vero tutto nasce da una gara di cucina alla quale ho partecipato un po’ di tempo fa. Uno dei giurati, il presidente della commissione, un russo, mi disse che a lui piaceva la cucina italiana, che nel nostro Paese si mangia sempre bene. E parlava dall’alto di una esperienza trentennale. “Ma oggi, disse riferendosi ai piatti che avevo cucinato io, per la prima vota ho assaggiato un cibo che aveva anima. Qua dentro ho trovato la sua anima, disse rivolgendosi a me.
E lei era consapevole che dentro i suoi piatti ci finiva anche la sua anima?
Mi illudevo che fosse così, ma prima di allora nessuno me lo aveva detto. Quella è stata una conferma. Quando veniva qualcuno a mangiare a casa mia, mi esternava il proprio giudizio. Mi riempivano di complimenti: questo piatto è buono, non è per niente grasso come, invece, accade spesso quando si ripropongono le ricette della tradizione. Ma prima di quel commissario russo, nessuno mi aveva detto una cosa tanto bella.
Chi è il suo punto di riferimento?
A mano a mano che passa il tempo, mi sembra di somigliare, ai fornelli, sempre più a mia madre. Lei dava l’impressione di mettere il cuore in tutto quello che cucinava. E questo non l’ho mai avvertito nei piatti preparati da altri. Lei mi ha insegnato a godere della gioia che si prova a cucinare per altri. E a godere del piacere e della soddisfazione degli altri. Il piatto, in questo modo, prende vita.
Perché ha scelto di pubblicare un libro di racconti e di ricette?
Ho abbinato le due cose: le ricette sono la base di un pranzo o una cena. E queste sono un’occasione per incontrare le persone. Se penso a cosa mi manca del passato, rispondo che è quello stare insieme, soprattutto a tavola. Una volta si usava un unico piatto, quand’ero piccola il secondo arrivava in un piattone da mettere al centro della tavola in modo che i commensali potessero prendere direttamente da quel piatto. Quando rimanevano solo gli intingoli, si inzuppava con il pane tutti nello stesso piatto. Era un po’ come fare comunione. Oggi a tavola siamo distratti, c’è una insoddisfazione generale, anche certe mode ci hanno allontanati dalle nostre origini. E io combatto per questo, perché anche questo è un pezzo della nostra storia, della nostra identità, la fierezza di appartenere… Sono una testimonianza attiva di quella che è stata la mia origine e ho il dovere di trasferire agli altri quel che so e che ho imparato.
A proposito di piatto unico al centro della tavola, nel libro c’è un gustoso racconto che ha come protagonista un giovane insegnante e che lasciamo alla curiosità di chi vuole leggerlo…
Sono storie vere, fatti accaduti realmente in un passato neppure troppo lontani e che sono testimonianze di una povertà che ha caratterizzato l’epoca della mia fanciullezza.
Come nasce la sua passione per i fornelli?
Intanto una curiosità: io nasco inappetente, da piccola mangiavo solo uova e latte. Due litri al giorno. Poi ho imparato a godere del cibo. D’agosto, nel periodo delle ferie, subivo la contaminazione della cucina siciliana grazie a mia zia, originaria di lì. Ma anche della cucina emiliana, perché quella zia abitava a Bologna. E quando veniva al paese per l’estate, preparava i passatelli, tortelli e tortellini. Volevo imparare come si mangiava altrove. Ho cominciato a cucinare per assaporare cose diverse, invece poi è scattato altro. A diciannove anni ho partorito mio figlio, è scattata la rivoluzione dei sapori. Da allora ho imparato: avevo davanti tante cose e volevo apprezzarle. Era un mondo nuovo, intrigante. Che stimolava anche il dialogo. A tavola si parlava di questo
E quando i fornelli sono diventati un mestiere?
Ho cominciato a lavorare nell’amministrazione pubblica: ero responsabile della Ragioneria del Comune di Ruoti , ma già mi guardavo intorno. Ovunque andassi cercavo di capire come si cucinava. A Napoli con una mia zia, andavamo in giro, assaggiavo di tutto, chiedevo come si facevano, volevo imparare. A un certo punto, nel 1994 ho avuto la necessità di fermarmi momentaneamente con il lavoro in Comune. Mio figlio gestiva una cooperativa che si occupava di gastronomia. Andai a dargli una mano. Dopo un po’ gli disse che potevamo provare a fare cucina: avrebbe dovuto tenere il pizzaiolo perché non ero capace, ma il resto del cibo lo avrei preparato io. Il primo giorno vennero due persone. Avevo preparato un solo primo o un solo secondo. Non poteva bastare, l’ho capito subito, perché quel giorno avevo fatto pasta e piselli, ma una delle due persone non mangiava piselli. Così ho cominciato a mettere nel menu più piatti.
Una caratteristica della sua vita sono i viaggi: anche quelli all’insegna della cucina.
In Tunisia ero ospite in una casa privata: loro mi hanno insegnato a fare il cous cous e io la pasta fatta in casa. Poi sono stata in Egitto: avevo preso dei contatti solo telefonici con una persona di origine pugliese, Dario Cananzi. Era uno che in America si occupava di rimettere in sesto i locali che si trovavano in difficoltà. Lui sapeva della mia passione per la cucina e mi chiamò: verresti in Afghanistan? Un paio di anni a Kabul. Risposi no, stavo per andare in pensione. Mi propose in alternativa Herat. Dissi che ero disposta ad andare per brevi periodi, alternati. E che in quei periodi avrei formato delle persone. Nel campo Arena dove mi trovavo, oltre al presidio militare, con una mensa da 1800 persone, c’era il Ristorante Casa Italia dove ho insegnato cucina italiana ad uno chef indiano, Rosario e ad alcuni ragazzi afgani, umili, bravi e generosi. Dovevamo preparare 150 coperti ogni sera. Per fortuna divisi in due turni, perché la cucina era piccola, piccolissima. Nel primo soggiorno gli insegnai a fare tutto, tranne i risotti e i secondi che abbiamo fatto la seconda volta che sono tornata. Nel terzo viaggio ho aperto la visuale a tutti i piatti che conoscevo, anche a quelli di cui ero più gelosa.
Cosa c’è del suo territorio, delle sue radici, nelle proposte culinarie?
Partiamo dal fatto che a Ruoti, il mio paese, ho preparato diverse pietanze per ricorrenze e avvenimenti, anche privati, così ho visto che i giovani si avvicinano volentieri alle nostre culture. Ed ho cominciato a proporle. Penso al m’stazzuolo aviglianese. Lo preparo tagliato a pezzi, con una crema pasticcera sotto e le nostre amarene messe al sole con un po’ di zucchero sopra: è una rivisitazione. A dicembre faccio lo stesso coi ravioli ripieni di castagne, il pan di spagna con le due creme, come lo faceva mia mamma: una tradizionale e una con la cioccolata. E con la marmellata di arance era un connubio particolare che molti pasticcieri hanno scoperto anni dopo. Ma il mio cavallo di battaglia più grande, è il peperone sottaceto, con l’uvetta e il mostro cotto…
E’ questa la sua ricetta del cuore?
Si, alla pari con il maiale, sempre con il peperone sottaceto: il gusto dell’aceto mi manda in visibilio.
Cos’è Ristoweb?
E’ una associazione per la quale io sono la responsabile nazionale delle donne, si rivolge a tutto il mondo, agli amanti di cucina, di vino che aspirano a sapere qualcosa di più: chi si iscrive può frequentare dei corsi on line che, ad esempio, sono gratuiti per gli studenti degli istituti alberghieri e poi si occupa di formazione a ristoratori, pasticcieri, cuochi professionisti e anche del riconoscimento della qualità dei prodotti dei locali.
Non abbiamo parlato dei racconti….
Sono storie della mia infanzia. Parlo di mia sorella che frequentava una pluriclasse, quelle piccole, di campagna. Ci andavo a trovarla, mi piaceva perché era immersa nella natura. Parlo di quant’eravamo poveri eppure felici. Una volta sono andata a casa di una bambina che frequentava quella scuola e mi hanno fatto restare a pranzo: non c’era niente. Mi offrirono un pezzo di peperone crusco. Le uova, per prepararlo, la mamma della bambina le prese da sotto il letto e, per girare un pezzo di lardo nel pentolino, la prese un legnetto da fuori. Non aveva neppure un mestolo. Ma lì ho trovato il fondo della mia anima, la tranquillità. Perché nonostante tutto, quella donna era sorridente.