“E qualcosa rimane,
tra le pagine chiare
e le pagine scure…”
Un verso di Francesco De Gregori per raccontare un intellettuale lucano. E qualcosa rimane, Nicola Chiaromonte intellettuale al modo antico è l’ultimo lavoro letterario di Pino Rovitto, scrittore originario di Senise, che vive in Emilia Romagna.
Nato a Rapolla, Nicola Chiaromonte si trasferì a Roma che aveva appena tre anni: suo padre, medico, scelse la capitale per esercitare la sua professione. “Cosa rimane” è la raccolta postuma dei pensieri di Nicola Chiaromonte, scritti che erano custoditi nei suoi taccuini e pubblicati grazie alla seconda moglie dell’intellettuale lucano, Miriam Rosenthal, e oggi custoditi all’interno della Beinecke Rare Book and Manuscript Library dell’Università di Yale negli Stati Uniti, che li ha acquistati nel 1992.
L’incontro di Pino Rovitto con Chiaromonte è stato una specie di colpo di fulmine. “Ho letto uno dei suoi due libri pubblicati in vita, La situazione drammatica, una raccolta di scritti. Lui era anche critico teatrale. Per me è stata una folgorazione. Ha scritto delle cose incredibili. Mi ha incuriosito e si è acceso l’interesse, così ho cominciato a ricercare le cose che raccontavano di lui”, spiega l’autore.

Nicola Chiaromonte Ebbe legami d’amicizia con filosofi come Hannah Arendt e Albert Camus, e scrittori come George Orwell, e collaborò con Gaetano Salvemini al settimanale italiano a New York, Italia libera. Con Ignazio Silone fondò la rivista Tempo presente e scrisse di teatro per il Mondo di Pannunzio.
“Non è, questa, un’opera critica sugli scritti di Nicola Chiaromonte, ma è l’espressione, parziale, del mio personale incontro col pensiero e l’opera di Nicola Chiaromonte – avverte Pino Rovitto già dalle prime pagine del suo libro. E poi conclude con un doppio invito: “Uno ai lettori a leggere le opere disponibili di Nicola Chiaromonte, e uno alle case editrici che ne hanno i diritti di ristampare le opere non più disponibili”.
Qual è il senso che ha ricavato dai suoi scritti?
A mano a mano che leggevo mi rendevo conto che c’era nei suoi scritti un senso di libertà estrema: Chiaromonte è stato antifascista nel periodo del Ventennio, tanto che fu esiliato in Francia e vigilato dalla polizia di Mussolini e poi, finito il Fascismo è stato tra i primi a dubitare del Comunismo, in un periodo in cui era anche un po’ difficile essere anticomunista. Insieme a Ignazio Silone ha fondato la rivista Tempo presente ed è andato avanti fino alla fine degli anni Sessanta. Leggevo ed emergeva il suo profilo di antitotalitario. E’ stato ed è un personaggio libero. Poteva vivere di rendita, era raffinato, elegante: ha voluto difendere la libertà sua fino alla fine.
Era critico teatrale per Il Mondo di Pannunzio, una vera fucina di cervelli e di giornalisti illustri.

Del teatro scrive, citando lui stesso: A teatro è la parola parlata che conta. Il teatro riconquista, come in uno specchio magico, il corpo, il gesto, le circostanze, l’urto vivo degli affetti e dei pensieri. Finge di essere la verità vera, il teatro, e che una verità vera, certa corporea, esista: che l’individuo possa essere quel che appare e nessun altro, e pianga quando piange, rida quando ride, sia preda vera della passione e possa infine essere un esempio per gli altri.
Ha posizioni nette anche sul credere…
Nell’altro libro pubblicato quand’era in vita, Credere e non credere, lui è un eretico del pensiero, della vita, dice: “Il credere, quando è autentico, è incerto, come l’esistenza e, come l’esistenza, sta lì già prima che se ne sappia qualcosa. La resurrezione della carne, la palingenesi socialista o il trionfo finale della tecnica sulla natura, tuttavia, sono credenze che hanno senso in quanto prendono la forma di speranze animatrici di azioni, anzi di buone azioni. Diventano idee insensate e funeste non appena si trasformino in dogmi che impongono la mortificazione del corpo e dello spirito in vista di scopi inflessibilmente prescritti. In quel momento, esse entrano in contraddizione con la natura delle cose e con quella dell’uomo”. Nel leggerlo sono rimasto folgorato, lo trovo un pensiero attuale, moderno.
Quanto c’è di lucano nei suoi scritti o nel suo modo di essere?

Diceva Tolstoj: Se vuoi essere universale, parla del tuo villaggio. Lui è stato solo tre anni a Rapolla, dov’è nato. Poi la famiglia è andata a Roma, il padre era medico. Ma lui ha conservato qualcosa delle sue radici. In una delle sei parti in cui è diviso il libro, ho raccolto i pensieri che altri hanno espresso su Chiaromonte. Enzo Siciliano scrisse questo: Era un italiano del Sud, chiuso e talvolta persino scontroso come certi lucani possono esserlo, ma appassionato e devoto al proprio pensiero fino a soffrirne, fino a un rabbioso silenzio di fronte alle altrui velleità. Si dice poco di Nicola Chiaromonte se non si dice che egli fu una delle figure più illustri tra i fuoriusciti europei negli anni del fascismo. Era un uomo discreto, un tratto che ci caratterizza. Lui non voleva apparire, ha conosciuto i più importanti intellettuali americani, liberal, ma è sempre rimasto discreto. Era la sua cifra. Nella discrezione vedo la nostra lucanità. Si è sempre preoccupato di vivere nascosto.
Veniamo al titolo: cita De Gregori, anche se ogni capitolo ha una introduzione musicale…
Una delle cose scritte da Chiaromonte è Cosa rimane. Mi ha rimandato a Rimmel di De Gregori. Rimane, se rimane, quello che si è, quello che si era: il ricordo di essere stati «belli», direbbe Plotino, e la capacità di mantenerlo tuttora vivo.
Un libro in sei parti per raccontare una figura poco conosciuta e poco celebrata e ricordata anche nella sua terra.
Parto da una biografia per sottrazione, racconto l’uomo e l’intellettuale attraverso i suoi scritti. Poi ci sono i carteggi, quelli tra Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte (1932-1955), com Albert Camus (1945-1959), il carteggio con Melania Von Nagel, quello tra Hannah Arendt e Mary McCarthy, nel quale si trovano molti riferimenti a Chiaromonte. C’è poi una prefazione di Filippo Gazzaneo e la post-fazione di Andrea di Consoli.
Nicola Chiaromonte era il primo di quattro figli, in una lettera del 7 marzo 1969 a Melanie Von Nagel, così parla della sua famiglia e delle sue radici lucane: Dunque, mio padre era di origine normanna – infatti, era rossiccio di capelli e occhi chiari. Sua madre però era albanese, di uno di quei paesi dell’Italia meridionale, Maschito, dove rimangono tuttora nuclei che parlano solo albanese – come in Calabria che ci sono villaggi dove si parla ancora il greco antico. Da parte di mia madre – tuttavia – c’è la scelta fra origine greca e saracina: opto per la Grecia. Anche perché ora si è scoperto che i Greci non si fermavano sulle coste dell’Italia meridionale, ma penetravano all’interno risalendo i fiumi: in Basilicata appunto sono state scoperte all’interno necropoli greche. Lucania che, all’inizio XX secolo, era diventata l’Irlanda d’Italia, a causa dei fenomeni migratori che diedero inizio a processi di spopolamento durati fino ai nostri giorni.
Nel 1908 la famiglia si trasferisce a Roma; dopo le medie studiò prima all’Istituto Massimo retto dai Gesuiti e poi, l’ultimo anno, al liceo statale Torquato Tasso di Roma. Qui conosce, e stringe amicizia con Ettore Majorana.
Dopo una simpatia giovanile per il fascismo, con l’uccisione di Matteotti, prende le distanze dal fascismo, essendosi già avvicinato al movimento Giustizia e Libertà e a Piero Gobetti, del quale non condivide, però, la visione storicistica. A Parigi frequenta anche Carlo Levi, conosciuto nell’estate del 1931, e conosce, suo tramite, Pablo Picasso.