“Sono grato per ciò che la mia terra mi ha dato: un’infanzia felice, un ambiente sano, i cibi, i profumi. Ma sono grato anche per le mancanze, per ciò che non c’era, che non abbiamo avuto”.
Se qualcuno pensa che la molla che ha spinto Angelo Pallotta – giovane emigrante del nostro secolo, oggi insegnante in Australia – a raccontare in un libro le sue radici, sia stato il riscatto, sbaglia. E ci tiene lui stesso a sottolinearlo: “Nessun riscatto e nessun rimpianto. Credo che le cose che le mie origini mi hanno fatto mancare mi abbiano aiutato allo stesso modo delle belle cose che dall’infanzia e dalla mia terra ho ricevuto”.
“Il profumo delle castagne” è questo. Un romanzo che, come lo stesso autore sottolinea “Si è quasi scritto da solo. Il difficile è stato iniziare. Tanto che, per un po’ di tempo, quelle pagine scritte, le ho tenute in un cassetto che ho aperto soltanto mesi dopo, approfittando del fatto di trovarmi a casa da solo per alcune settimane”.
E proprio in quel tempo, il romanzo è nato. Quasi di getto: quindici capitoli, quindici personaggi o situazioni a lui cari, dalla famiglia ai punti di riferimento della sua infanzia. E tutto, con un’unica cornice, quel paese dov’è nato e dov’è vissuto fino a che il suo percorso scolastico glielo ha permesso: Carbone.
“Sono di Carbone – racconta Angelo Pallotta – cresciuto a Carbone, dove ho frequentato le scuole elementari e le medie. Poi mi sono trasferito a Potenza, dove mi sono laureato in lingue. Per un periodo ho vissuto, grazie al progetto Erasmus, in Germania, qui ho conosciuto la mamma di mio figlio e con la quale ho preso la decisione di trasferirmi in Australia, la sua terra, dove vivo da sedici anni. Prima ho svolto diversi lavoretti, poi sono tornato a studiare, all’Università australiana, ho studiato Linguistica e Sceinze della formazione, ho preso l’abilitazione e ho cominciato a insegnare”.
Nel frattempo si è occupato di traduzioni, ha scritto per alcune riviste culturali in lingua inglese, soprattutto recensioni di libri. La scrittura, insomma, è sempre stata presente nel percorso di Angelo Pallotta.
Perché ha sentito la necessità di raccontare, in un libro, storie della sua infanzia?
L’idea del libro è stata casuale, più di un anno fa decisi di mettere su carta qualche rigo, poi accantonato e poi da dicembre ho approfittato di una vacanza di mio figlio e mia moglie in Svezia, per riprendere quegli appunti che piano piano sono diventati una storia.
E’ un libro autobiografico…
Sì, parla di un ragazzino nato in una famiglia umile, di Carbone. Parla di un ragazzo al quale piace la scuola, che cresce con la mamma e i suoi fratelli, parla dei rapporti con i genitori, ma parla molto del paese: della lingua, del dialetto, dentro ci sono personaggi tipici di Carbone. Ogni capitolo ha un incipit che è un proverbio carbonese, ci sono espressioni dialettali e c’è una sorta di glossario con la spiegazione dei proverbi. A me interessano le lingue e i dialetti, ma questo non è un libro di analisi linguistica: ho usato una trascrizione semplice, in modo che tutti potessero capire, senza particolari conoscenze. Il linguaggio rispecchia i personaggi, i luoghi, semplici e genuini.
Ognuno dei quindici capitoli è dedicato a un personaggio, a un evento.
Ci sono i miei tre fratelli, Concetta, la più grande, che oggi vive a Padova. Poi Giuseppe. E poi c’era Antonio, che è venuto a mancare 12 anni fa. Ci sono mia mamma, casalinga. E mio padre, contadino agricoltore, oggi in pensione. Racconto i miei nonni, anche quelli che non ho conosciuto, perché scomparsi prima.E poi figure che sono state di spicco, veri riferimenti della mia infanzia: u furger, il fabbro, Totonno il barista, don Aldo, il parroco. E poi parla di rituali: come l’uccisione del maiale, del Carnevale. Eventi che raccontano il passare del tempo e hanno valori più profondi. L’uccisione del maiale, ad esempio, non come momento per procurarsi del cibo ma il modo per ritrovarsi, tutti insieme con i parenti. Una parte della mia famiglia è originaria di Episcopia: per quelle occasioni venivano per aiutare ma anche per stare insieme.
Il “Profumo delle castagne” ha anche il profumo… del riscatto personale?
No, assolutamente. Non ho avvertito il bisogno di riscattarmi da niente. Se si avverte questo, non è stato voluto. Forse c’era quando ero piccolo, ma in fondo non ho nessun rimpianto, né remore verso i miei genitori, verso quel che mi è mancato. Sono grato per quel che Carbone mi ha dato: un’infanzia felice, i cibi, i profumi, ma anche per quel che non ho avuto, le mancanze. Senza retorica: le mancanze aiutano quanto ciò che si ha, formano, fanno apprezzare di più quel che si ha e non quel che non si è avuto.
Qual è il suo legame con Carbone?
A parte la sfera biologica e quella biografica, anche quando ci abitavo, a me quel luogo è sempre piaciuto, a differenza di tanti che si lamentavano. Poi, quando si è lontani, si apprezza ancora di più.
Però è un luogo, come tanti del nostro Sud, che costringe ad andar via: non prova anche sentimenti negativi, per questo?
No, per quel che mi riguarda non è stata una costrizione. Potevo restare, avrei avuto altre prospettive, altre opportunità. Nessun rimpianto. Il legame è forte per i miei genitori, fa parte della persona che sono, del modo in cui sono cresciuto, il legame è con la gente, le amicizie, gli affetti. Stando in Australia mi identifico molto di più con Carbone che non con l’Italia. Non mi manca l’Italia, a volte mi manca Carbone.
Il libro può essere acquistato direttamente dalla casa editrice che lo ha pubblicato Youcanprint o attraverso le principali piattaforme on line.