La scrittrice e avvocato Maria Lovito

Una tisana è un’occasione conviviale. Ma anche un momento per chiudersi “a cerchio”. E raccontarsi. Forse come non lo avrebbero mai fatto prima. Quella tisana, al cardamomo, è il collante ma anche la spinta per un gruppo di donne che hanno in comune più di una cosa: all’inizio la passione per lo yoga. Poi, a mano a mano che i racconti si dipanano, anche le esperienze. Sono simili, nel dolore innanzitutto. Ma anche nella volontà di ripartire, di riprendere – e riprendersi – un percorso personale. Storie di violenza e di riscatto, storie di solitudini (“anche quando si è coppia”) e di vite reinventate.

Una tisana al cardamomo, terza opera di Maria Lovito edita da Edigrafema

“Una tisana al cardamomo”, terza opera letteraria della scrittrice e avvocata lucana Maria Lovito, pubblicata da Edigrafema, è tutto questo: un po’ è la voglia di indagare , com’era avvenuto per la sua opera prima “La gabbia di Anna”, le varie forme di violenza che le donne sono costrette a subire ogni giorno. Un po’  la volontà di raccontare le diverse reazioni che le donne hanno davanti alle avversità e la forza di reazione a queste.

Sei donne, compreso Marta che suggerisce quello che chiameremmo “gioco”, se non fosse che mette a nudo l’animo delle protagoniste, a volte facendo affiorare segni indelebili che, neppure la forza catartica del racconto riesce a mimetizzare. Un pomeriggio a raccontarsi, in cerchio, con i profumi di incenso e la tisana al cardamomo, in uno dei locali della struttura dove si ritrovano per praticare yoga. Sandra, Lea e Ada avevano  vissuto l’esperienza della separazione;  Luciana,la titolare del centro, pure. Maria e Marta no.

Sei donne che, in quel cerchio che assume le sembianze di un luogo chiuso,  come uno spazio tutto per loro, fanno non poca fatica a raccontare  quel che si portano dietro e dentro. C’è anche chi non ci riesce, fino in fondo.

Quando e com’è nata l’idea di questa nuova avventura letteraria?

L’idea è nata insieme all’esigenza di raccontare, come avevo fatto con La Gabbia di Anna, le violenze, i soprusi, le angherie che le donne subiscono. In modi diversi, per motivi differenti.

Ed ha coinvolto le sue amiche del corso di yoga: le protagoniste sono vere, le confessioni pure?

Quando ho raccontato la mia idea alla titolare del centro di yoga è stata accolta subito con grande interesse e anche con grande curiosità. Ma, ovviamente, non tutte le donne alle quali ho prospettato questo percorso hanno accolto l’invito. Le storie sono quelle che ogni donna si trova ad affrontare: il dolore per gli affetti che vanno in frantumi, per le violenze – non solo e non sempre fisiche – che si trovano a contrastare. Abbiamo deciso di raccoglierci in un cerchio e di raccontare le nostre esperienze, quelle che ognuna di noi si porta dentro, che in qualche modo sono la conseguenza dei dolori, delle decisioni, delle trasformazioni delle donne. Sono storie che accomunano le protagoniste del libro a tante altre donne.

Lo yoga come pretesto per questa “riunione- confessionale” ma anche come spunto per la struttura narrativa che ha utilizzato per dipanare il racconto.

Ho strutturato il percorso narrativo come l’ascesa dei sette chakra principali che fanno parte della teoria dello yoga.

Le storie che racconta hanno anche un significato di riscatto. O, utilizzando una parola molto in voga nel nostro quotidiano, raccontano tutte una resilienza, la capacità di resistere, di rialzarsi e continuare un proprio percorso, anche quando le esperienze personali costringono a un cambio repentino di rotta.

Quello che, a turno, le protagoniste fanno nel libro, sono racconti fatti di lacrime e dolore. Ma anche di speranze e di progetti.

C’è una donna che le sta a cuore più delle altre, escludendo Marta che, nel libro assume il ruolo che, nella realtà dei fatti, ha avuto la scrittrice?

Tutte le donne, perché incarnano uno spirito che io sintetizzo con una frase di Mahatma Gandhi: “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Ma in particolare penso a Maria. Alla sua battaglia nei confronti dei genitori, emigrati in Svizzera ma con la testa e i modi di fare ancora… al paesello. Alla sua ribellione quando decide di sposare il ragazzo che lei – e non la famiglia – aveva scelto. Alla tragedia che coinvolge il figlio, alla fatica per lenire il dolore, all’aiuto che arriva dal marito che poi, una malattia rende un estraneo. E alla sua dedizione a quell’uomo, anche adesso che non la riconosce più.

Nel libro c’è un omaggio personale che fa a Virginia Wolf.

A una sua opera soprattutto, “Una stanza tutta per sé”. Scrivo e penso che nel nostro Paese la parità di genere non è mai stata raggiunta e che oggi, la povertà economica e quella culturale, stanno facendo riemergere nuove discriminazioni. Sono poche le donne che riescono a superare il tetto di cristallo, quelle che hanno accesso alle stanze dei bottoni. Il libro della Wolf apre una porta di fiducia nel futuro delle donne.

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