Un’estate intensa si apre per Domenico Conforte, che dal 15 al 30 luglio esporrà nei luoghi che furono di san Francesco, a Chiusi della Verna, con una mostra intitolata “L’uomo e la natura”. Si sposterà poi in un altro sito di straordinaria bellezza, come la città di Matera (dall’1 al 12 agosto) e poi ancora ad Aliano (dal 18 al 22 ancora di agosto), con una mostra che è invece un “Omaggio a Carlo Levi”, che nel piccolo paese lucano fu confinato dal regime fascista, ma dove incontrò un popolo povero e ignorante, e di antichissima civiltà.
Confrontarsi con le opere di Domenico Conforte, vuol dire aprire una finestra sulla natura, questo non perché lui aderisca alla moda del momento, ad una ecologia spesso di maniera;Conforte si lega invece alle sue radici, lo fa quando parla della transumanza, dei vaccari che punteggiavano le montagne della Basilicata e della Calabria; della capra -sua più grande amica di bambino – che adesso racconta dentro ai suoi quadri.
Sono tante le cose, dietro alle quali noi avvertiamo un rispetto straordinario per i luoghi della sua infanzia, ed è solo parlando di loro – di una natura troppo spesso violata – che noi avvertiamo una rabbia che non trova sfogo. “Quando ero piccolo – dice accorato – non c’era un incendio, i boschi erano giardini, con il sottobosco che non esisteva, perché gli animali ne facevano lauti pasti. Le piante erano sorelle e madri, venivano curate e conservate”.
Quelle montagne e quelle foreste, quei borghi che si nascondono e si inerpicano sulle rocce, tutti quei luoghi che rimasero alle stirpi italiche, lontane dalla colonizzazione della Magna Grecia e anche dei Romani, sono – l’abbiamo già detto altre volte – luoghi dove si conservano antichi culti agrari, e addirittura riti arborei di straordinaria potenza. Ad esempio,a Satriano e ad Armento, due paesini abbastanza vicini a Ruoti (luogo d’origine di Conforte), dove gli uomini si travestivano da alberi, anche qui legandosi ad unarcaico omaggio e anche ad una salvaguardia della natura.
Lo si vede nel bellissimo film documentario di Michelangelo Frammartino, un regista milanese, anche se di origini calabresi, che nel suo “Alberi” (debutto al MoMa di New York, dentro il Tribeca Festival), ci mostra uomini che al mattino presto vaganoper i boschi, vicini al paese, e lì cominciano a ripulire gli alberi dall’edera, che per voce comune, sembra togliere vitalità alle piante che avvolge. Con questi lunghissimi rami si mascherano, diventando piante, pronte a muoversi nei ritmi straordinari del tamburello e della fisarmonica, al centro una antichissima ritualità.
Non so se Conforte conosca questa cerimonia, certo i suoi quadri paiono esserne una sorta di rappresentazione vivente, le piante che si intrecciano, che si avvolgono, le linee che si incurvano, dalle quali escono forme che paiono umane: braccia, occhi, bocche. Le foglie si avvolgono ai corpi (comeappunto nei Romiti, gli Uomini Albero di Satriano ed Armento), fino a perdere concretezza e forme più o meno intuibili, ma che si possono riconoscere dietro alle figure che sono olivi o altri arbusti antropomorfi. Ecco, dunque, Pan o Kore e ancora Demetra, che raccontano qualcosa di più di un legame con una religiosità pagana, ancora evidente in un’epoca come la nostra, di poca o scarsissima fede. Presenze che emergono dalla natura, in forme che possono senza dubbio alludere alla santità di Francesco, che si sente vivissima in siti come la Verna, non a caso rappresentati nelle ultime opere di Conforte.
Ma stiamo attenti, non troveremo un miracolo o la figura di un santo, non c’è niente che assomigli ad una rappresentazione agiografica, un po’ come succede nei film di Frammartino:siamo ‘dentro’ al rito, non lo vediamo semplicemente rappresentato. Del resto, c’è tra Conforte e Frammartino, una comunanza di intenti, ambedue rifuggono da quella che si potrebbe chiamare commercializzazione dell’evento, entrambi escludono il racconto, anche quando potrebbe essere una spiegazione scientifica.L’opera è l’evento stesso, con i suoi colori poco naturalistici, in genere l’azzurro, più di rado il verde e il bruno, il giallo come contrasto, poi la danza dei gesti e delle braccia che sono arti vegetali, ma anche umani, parti di corpi che si amalgamano in legami misterici e misteriosi. Questo, naturalmente, in Conforte. In Frammartinoinvece le figure si celano nelle ramaglie d’edera, diventano essi stessi piante, o Uomini Selvatici, o ancora Figure di Bosco.Tornano verso il piccolo borgo, arrivando da tutte le parti, sembrano una decina e invece sono venti volte di più, le donne gli si avvicinano e colgono un rametto, qualche foglia, che evidentemente rappresentauna sorta di frutto apotropaico, è come il ramo dell’olivo, salvadal male. Lo stesso in Conforte, nelle sue opere c’è una esaltazione della natura, dunque della bellezza, anche quando si assiste ad una trasformazione, non c’è mai la morte fine di un ciclo, c’è semmai la circolarità.
Tornando a parlare dell’edera, si scopre che non è dannosa per le piante in generale, solo per quelle più deboli, che la foresta non vuol far sopravvivere. Sono tronchi destinati a cadere, loro sì non ce la fanno a contrastare l’elemento infestante, lasceranno il posto a nuove piante, nella circolarità infinita dell’elemento naturale.
Per questo il lavoro di Domenico Conforte ci interessa, per una realtà arcaica da cui prende le mosse. Non è una pittura semplice, Confortenasce da Picasso, Van Gogh, soprattutto Klee, studiato a fondo per la tesi all’Accademia di Firenze, ma questi grandi sono letti, proprio nella loro ricerca di semplicità, spogliati dalle sovrastrutture, dai riferimenti colti. Tornati ad una sorta di pittura delle origini: e se si pensa a Paul Klee, si può ben capire quanto abbiamo appena scritto, con opere che possono ricordare i disegni dei fanciulli, nei riferimenti alla pittura primitiva africana o ai graffiti delle caverne. In realtà, dietro a questo impegno, e naturalmente anche dietro al lavorio di Domenico Conforte, c’è una specie di ribaltamento della pittura, là dove si privilegia una ricerca di contenuti, ad esempio in una pittura metafisica o surrealista, qui si va verso il grado zero, le opere sono portate ai minimi livelli, che poi sono i massimi: diventano ciò che sono.
Le radici dell’olivo sono soprattutto un magnifico legarsi alla terra di un albero secolare, poi sono anche altro, ma solo se ci avviciniamo a loro con la fantasia, anche con la purezza di uno sguardo di bambino, che vede al di là del muro, o meglio oltre la corteccia.“L’unione fra uomo e natura è simile… – si legge nella presentazione della Verna – a quella fra madre e figlio, cogliendo alcuni elementi della cultura francescana come si vede in “L’Uomo e la natura” del 2015. Ecco che questo rapporto diventa in lui a tratti simbiosi e a tratti viaggio, probabili e possibili due facce della stessa sostanza. Come insegna la cultura umbra e francescana, la natura è manifestazione del sacro e il maestro documenta e testimonia pittoricamente tutto questo immergendosi in quel deus sive natura tanto caro a Baruch Spinoza nel suo trattato teologico politico. La semplicità dei tratti e la sua tecnica nasconde una rara capacità di gestione dei toni e delle sfumature. In particolare, nell’uso della luce… Tutta la sua ricerca è un continuo dialogo fra il disegno e il colore, per un invito alla responsabilità contro lo sfruttamento della natura. Domenico Conforte denuncia la disattenzione dell’uomo indicando il comportamento colpevole come offesa e danno al mondo e all’uomo stesso.”