Addio Maestro, addio Bobo. E’ morto, all’età di 83 anni, Sergio Staino, giornalista,scrittore, regista, soprattutto disegnatore, fumettista e… papà di Bobo.Si è spento nell’ospedale di Torregalli, a Scandicci di Firenze, dov’era ricoverato per una malattia che lo affliggeva da tempo e che negli ultimi giorni era peggiorata.
Delle sue origini lucane, da parte di padre (proveniva da Stigliano), non faceva mistero. Intervistato da STorieOggi, così raccontava, all’indomani del suo ottantesimo compleanno, il suo rapporto con la Basilicata.
Maestro, i suoi ottanta anni li poggia su un bastone di corniolo puro.
“Un ancein”, dice imitando il dialetto lucano. “Me lo ha regalato un pastore. E’ un bastone che serve a governare il gregge. E’ di corniolo. Lo porto sempre con me.Il corniolo è un legno duro, compatto, pesante. Quand’è lavorato ha una superficie liscia, setosa e lucida, doti di cui la durezza diventa alleata”
Suo padre era originario di Stigliano, nel materano. Quanto ha inciso la parte lucana del suo carattere sul percorso umano e professionale?
Tanto. Ma mi riferisco ad entrambi. Dei contadini toscani – perché l’origine della mia famiglia è contadina da una parte e dall’altra – mezzadri, com’era mio nonno, credo di aver preso il senso profondo della dignità della persona. Dall’Ottocento si è diffusa molto, con la mezzadria gli aristocratici toscani avevano dato in mano ai contadini il know how del loro mestiere. Gli portavano via metà del raccolto, ma i contadini avevano in mano il mestiere, decidevano cosa coltivare, come coltivarlo. E questo li portava a capire che, scomparsi i ceti superiori , nobili, preti, domenicani, avrebbero potuto vivere lo stesso. Mio nonno aveva il mestiere in mano e conosceva i segreti della terra. Tutto questo, probabilmente, ha portato a un atteggiamento di scontro. La Toscana è stata terra di anarchici, qui ha scelto di vivere Bakunin, si è formata una cultura anticlericale e anti nobiliare.
Questo è l’aspetto bello della toscanità.
Di brutto ci sono la superbia, l’arroganza, il sentirsi superiori agli altri.
E del Sud cos’ha preso?
Tutt’altro. Mio padre era bracciante, figlio di braccianti, costretti a dure regole di sopravvivenza, non sapevano niente di quel che stavano facendo, obbedivano agli ordini. Tutte le estati partivano per le Puglie per tagliare il grano, ma di come si coltivava il grano non sapevano niente. Erano nelle mani di parroci, baroni, latifondisti. C’era una situazione di disperazione di vita e umana, una ignoranza profonda e un atteggiamento tendente al servilismo.
C’era qualcosa di positivo…
L’umanità, la capacità in qualunque luogo del mondo fossero spediti trovavano subito amici, compagni, gente con cui stare insieme, con cui scambiare idee, con cui fare amicizia. Ho vissuto queste due cose perché mio padre era sfuggito alla miseria del Sud, C’erano due strade, o farsi prete o carabiniere. Lui scelse di fare il carabiniere. Fu mandato al Nord, gli fecero leggere un po’ di “Promessi sposi” per dargli la licenza di terza elementare. Fu mandato subito in guerra in Spagna, poi in Etiopia, in Abissinia, fu usato come strumento di conquista. Finalmente arrivato a Firenze negli anni Trenta conobbe mia madre, una contadinella inurbata perché nel frattempo mio nonno aveva trovato lavoro alle Ferrovie come usciere e si era evoluto: da anarchico contadino a socialista e poi nel 1921 comunista. Quando mia mamma portò in casa il fidanzato carabiniere credo che mio nonno si sia sentito male. Portare in casa di un fiorentino degli anni Trenta, comunista e perseguitato, un carabiniere e in più meridionale, non era semplice. Ma lo accettò. Mio padre ha vissuto con il nonno che era il vero punto di riferimento maschile della famiglia. Lui era il carabiniere tranquillo. La situazione ambientale era buona, forse taceva anche davanti a qualche umiliazione. Mi piaceva il fatto che quando conosceva qualcuno, dopo due minuti lo invitava a casa a mangiare qualcosa. “Ma forse disturbo”, diceva l’ospite improvvisato. Ma no, rispondeva lui. Invece c’erano mia madre e mio nonno che brontolavano: “chi ci porti, non ci ‘s’ha nulla…”. Secondo i toscani non c’era mai abbastanza. Mio padre aveva un sacco di amici ovunque, mio nonno era burbero, toscano, pochi amici. Ora, anche grazie ad anni di convivenza, sono migliorati.
E il suo rapporto diretto con la Basilicata? Quando c’è stato per la prima volta?
Mio padre mi parlava d questa terra lontana, diceva cose meravigliosa di questa Stigliano, terra antica, in cima al monte, 900 metri di altezza, i pascoli. Raccontava che si sentivano i lupi nel bosco. Nel 1951 avevo undici anni, uno zio tornava al paese, aveva fatto i soldi per pagarsi il viaggio, perché una delle prerogative del ritorno era quello di dimostrare a chi era rimasto di aver avuto successo lontani da casa. Decisi di andare a vedere la Stigliano che mi aveva raccontato mio padre. Mi portò, fu uno choc terribile. Mi ritrovai in un medioevo inaspettato. I parenti, le case metà in muratura e metà dentro la grotta. I materassi erano sacchi pieni di foglie di granturco, i bagni non esistevano, i cessi erano gabbiotti in mezzo ai campi. L’acqua si prendeva al pozzo, si mangiava tutti nello stesso piatto, a tavola si scambiavano i bicchieri ce n’era uno per tutti. Abituato a Firenze, ero schizzinoso, questa commistione mi faceva vomitare. Fu un’esperienza indimenticabile.
E i parenti, l’aspetto più umano di quel viaggio?
C’era una parte della famiglia quasi nobile, il fratello della mia nonna era stato segretario comunale, si considerava altolocato. La sua famiglia viveva in una palazzina spagnola di un solo piano, raffinato, con l’architrave scolpita, due scaline a specchio per salire nella casa, la stanza centrale alla moda spagnola, grande e con altre stanze da una parte e dall’altra. Ci invitò a pranzo, la moglie ci accolse come una dama spagnola del Seicento, tutta vestita di nero, con il corpetto con lo sbuffo alle spalle, il collo alto, i capelli tirati su. Serissima. A tavola c’erano tutti uomini. Solo uomini: nipoti, figli, c’ero io. Lei sedeva a capotavola. Le altre donne tutte a a cucinare e a mangiare in cucina, senza mai avvicinarsi. Scoprii un mangiare strano che non conoscevo: il peperone ripieno, la ricotta secca, le ‘ricchitelle, tutte cose che oggi adoro. Quando arrivò in tavola un grosso tagliere di pizza, rossa, unica cosa che conoscevo, mi uscì dal cuore, spontaneo, un urlo: la pizza, la pizza. Fui fulminato dalla zia, Filomena, si chiamava. Con un’occhiataccia mi disse: non lo dire, pizza è una mala parola. Scoprii dopo che era il nome del membro maschile. “Si chiama ficazza”, aggiunse lei, indicando il tagliere che portava in mano. Ora ci rido. Ma dillo a un fiorentino che la pizza a Stigliano si chiama ficazza…
Dopo quell’esperienza c’è tornato?
Da lì mi venne una grande curiosità di conoscere il sud. Più adulto lessi Sud e magia di Ernesto De Martino, mi interessai di canti popolari, in quel periodo alla radio c’era una rubrica che si chiamava Aria di casa nostra, l’ascoltavo sempre. A diciotto anni tornai attrezzato di un modernissimo registratore Geloso, con grandi pizze di nastro e registrai tutto: i racconti dei nonni, le storie dell’emigrazione, i viaggi in America, i racconti dei contadini, le formule della nonna per togliere il molocchio, chiamando tutti i santi del paradiso. E poi i canti. Ho sfruttato tutte le amicizie di mio padre. Mi invitavano nelle loro case, si beveva, si mangiava, ascoltavo i canti, le pastorali, quelli osceni, primaverili, i canti di maggio. Da allora mi sono sentito molto lucano. Se oggi ho questa umanità, se posso vantare centinaia e centinaia di amicizie sinceri, lo devo a questo. E’ la dote più bella che potessi avere dal sud.
Il suo Bobo ha mai fatto qualche accenno alle sue origini lucane?
Una volta, quando mi hanno assegnato un premio a Cirigliano, la Torre d’argento. Come lucano famoso. Mi dissero: abbiamo esaurito i lucani doc, stiamo premiando i figli. Ho fatto però una mostra ad Aliano, il paese dove fu confinato Carlo Levi. Era su Jesus e la volta che Cristo non si fermò a Eboli. Conto di farne presto un’altra, sempre ad Aliano. Ma mi piacerebbe molto organizzarne una a Matera, nei luoghi dove Pasolini ha girato il Vangelo secondo Matteo.
CHI ERA SERGIO STAINO.
Era nato l’8 giugno 1940 a Piancastagnaio, in provincia di Siena, alle pendici del Monte Amiata, ma aveva, da parte di padre, origini lucane. Di Stigliano, per la precisione. Dopo la laurea in architettura Sergio Staino insegna educazione tecnica presso vari licei della provincia di Firenze, stabilendosi alla periferia del capoluogo toscano, nel comune Scandicci.
Nel 1979 viene chiamato da Oreste del Buono a collaborare con la rivista di fumetti ‘Linus’, all’epoca: qui compare il personaggio di Bobo, sorta di alter ego dell’autore ma anche ritratto di una generazione sessantottina alle prese con le perplessità e i turbamenti prodotti dalle trasformazioni sociopolitiche del Paese. Bobo è un omone un po’ calvo e con barbetta, vagamente somigliante a Umberto Eco, ovviamente comunista come impostazione ideologica ma di animo critico anche verso il suo partito di riferimento come la satira richiede, che spesso spiega alla figlia Ilaria la politica italiana, nei suoi scossoni e nei suoi misteri.
Le vignette di Bobo sono apparse su molte altre pubblicazioni: da ‘L’Unità’ a ‘Il Corriere della Sera’, da ‘Il Messaggero’ a ‘La Stampa’, passando per ‘Il Venerdì di Repubblica’, ‘L’Espresso’, ‘Panorama’, “Cuore”, “Tv Sorrisi e Canzoni”, “Tango”, “Smemoranda”. E sono state raccolte anche in volumi da Milano Libri, Rizzoli e Feltrinelli.
Collaboratore tra il 1980 e il 1981 della pagina culturale del quotidiano “Il Messaggero”, e dall’anno successivo de “l’Unità”, nel 1986 Staino ha fondato e diretto il settimanale satirico “Tango”, inserto umoristico de “l’Unità” pubblicato fino al 1988 a cadenza settimanale, per un totale di 127 numeri. Primo esperimento di satira “dall’interno” del Partito comunista di cui all’epoca era segretario Alessandro Natta, “Tango” vide all’opera numerosi vignettisti come Altan, Ellekappa, Renato Calligaro, Roberto Perini e Andrea Pazienza e i commenti umoristici di autori come David Riondino, Michele Serra, Daniele Luttazzi, Francesco Guccini e Gino e Michele.
Nell’estate del 1986 “Tango” fu al centro di un caso politico – passato alle cronache come “Nattango” – poiché Staino, imitando lo stile di Giorgio Forattini, disegnò una caricatura del segretario comunista Alessandro Natta che ballava nudo al suono di un’orchestrina guidata da Bettino Craxi e Giulio Andreotti. Scoppiò una polemica sui limiti e il buon gusto della satira a cui Staino cercò di mettere fine con nuova vignetta intitolata “Errata Corrige”, in cui Craxi e Andreotti ballavano nudi al suono della musica di Natta. Dall’esperienza di “Tango” sono nati diversi periodici di satira, a partire da “Cuore”, inserto de “l’Unità”.
Negli stessi anni del successo di “Tango” Staino avviò la sua collaborazione con Raitre, dove nel 1987 diresse la rubrica “Teletango” e, nel 1993, firmò il programma satirico “Cielito lindo” condotto da Claudio Bisio e Athina Cenci. Staino è stato inoltre sceneggiatore e regista dei film “Cavalli si nasce” (1988) e “Non chiamarmi Omar” (1992), nonché direttore artistico del Teatro Puccini di Firenze (1991-99) e dell’Estate Fiorentina (1998-99).
Nel 2007 ha dato vita a “Emme”, autodefinito da Staino come “periodico di filosofia da ridere e politica da piangere”, supplemento settimanale dell'”Unità”, giornale che ha diretto dal 15 settembre del 2016 al 6 aprile del 2017 (su invito dell’allora segretario del Pd Matteo Renzi) e, dopo le dimissioni causate da uno sciopero dei giornalisti contro i tagli redazionali, dal 23 maggio al 2 giugno del 2017, giorno della definitiva chiusura della storica testata.
Dal novembre del 2017 Staino aveva iniziato a collaborare con “L’Avvenire” e le sue vignette sono state da allora con regolarità pubblicate sul quotidiano “La Stampa” prima con la dizione “La Striscia di Bobo” e poi con la scritta “Visto da Staino”; collaborazione interrotta dalla sua malattia nell’autunno del 2022.
Sergio Staino ha ricevuto il Premio Satira Politica Forte dei Marmi (1984), il Premio Yellow Kid al Salone Internazionale dei Comics (1984), il Premio Persea (2002) e il Premio Tenco (2016). Del Club Tenco Staino è stato presidente fino all’aggravarsi della sua malattia e ne era fino a oggi presidente emerito.
Le vignette di Staino sono state raccolte in numerosi volumi, tra i quali “Bobo” (1979); “Bobo. Le storie” (1988); “Amori” (1993); “Famiglia mia…” (1995); “Il romanzo di Bobo” (2001); “A chi troppo e a chi niente” (2010); “Staino terapia dell’amore: la miglior cura per la coppia inizia con una risata” (2011); “Alla ricerca della pecora Fassina. Manuale per compagni incazzati, stanchi, smarriti ma sempre compagni” (2016); “Troppo facile dire no” con C. Testa (2017). Tra i testi autobiografici il libro-intervista “Io sono Bobo” (2016), in cui Staino si racconta dialogando con Fabio Galati e Laura Montanari, “Quell’idiota di Bobo. In difesa del buonismo nella vita, nella satira e nella politica” (con Mario Gamba e Marco Feo, 2020) e “Storia sentimentale del P.C.I. (anche i comunisti avevano un cuore)” (2021).