«Una collina, un’altura, un calanco per andare a piangere i propri morti, i propri cari, i propri eroi. Sulla mia collina, sui miei calanchi ci sono tutti. Luoghi, stati d’animo e persone che fanno parte della mia vita, scrittori amati, persone care, il cui volto ho recuperato a casa di mia madre dalle immaginette funerarie che lei raccoglieva.
Sulla mia collina, sui miei calanchi c’e, intatto,immutato, lo stordimento della morte. Questa e la mia Spoon River, la mia patria portatile. Una collina geografica, sentimentale immaginaria.
Una cronologia del cuore. E fatta di bizzarre intimità e brandelli di storie…».
“Dormono sui calanchi. Piccolo alfabeto di cose e amici imperduti per tenere sveglia la morte”, l’ultima fatica letteraria di Pino Rovitto, pubblicata da Edigrafema, si svela fin dalle prime pagine: è una Spoon River personale. Privata. Un luogo del cuore. Come dice Alberto Fraccacreta, ricercatore di italianistica all’Università di Urbino, nella postfazione al libro, che questi testi sono la porta di ingresso a un laboratorio personale di Rovitto, un luogo-non luogo che si trova tra la sua Senise, in Basilicata e la Romagna, la terra dove vive e lavora.
E per capirne l’essenza di questo spazio, basta dare uno sguardo al capitolo nel quale l’autore ha elencato le fonti e le ispirazioni che ne stanno alla base. Anche se tutto è nato, casualmente,da uno slancio di curiosità dovuto a una fotografia. «L’idea è nata qualche anno fa, circa sei, – racconta Pino Rovitto – curiosavo tra le carte di mia madre nella casa di Senise e trovai le immaginette che si fanno per ricordare i defunti. Dopo quella volta ho continuato a cercarne e a metterne da parte. Mi colpiva questa necessità dei familiari o, spesso, anche di chi muore, che desidera lasciare alcune cose, tracce di sé: la fotografia, certo, ma anche qualcosa di scritto che ne ricordasse la figura. Ne ho raccolte un po’ a casa di mia madre. Altre le ho chieste ai vicini. Questa cosa mi ha incuriosito così tanto che ho cominciato a documentarmi. Ho letto l’antologia Palatina, la prima Spoon river del mondo occidentale, poi gli epitaffi greci di Peek, Dialoghi dei morti di Luciano di Samostata. E poi ho riletto Antologia di Spoon River di Egdar Lee Master».
Da queste letture poi, è iniziata la raccolta delle idee sfociate in questo libro?
«Ho cominciato a raccogliere materiale, ma a mano a mano la cosa si è allargata perché mi venivano in mente quali sono stati i miei riferimenti letterari, culturali. Ho cominciato a inserire gli autori che per me sono stati importanti, sia di letteratura che di pittura».
Qualche esempio?
«Da Borges a Piero della Francesca, da Leonardo da Vinci e la sua genialità a Leon Battista Alberti, il progettista del Duomo di Rimini, il tempio Malatestiano che è il primo esempio di architettura rinascimentale in Italia. E poi Dante, Leopardi, ma anche De Gregori e De André. La mia collina, insomma. La cosa interessante è che ho mescolato le due cose, le persone e i personaggi».
L’esigenza di trasformare in materiale letterario questo percorso personale, quando è scattata?
«Quando ho visto che la cosa non era legata solo al ricordo. Che poteva essere una ricerca che va al di là del luogo di nascita. Quando ho chiesto una postfazione ad Alberto Fracacreta lui ha trovato delle somiglianze con Salvo il Crepuscolo di Cortazar. Scrive alla fine del suo intervento: “Questa non e soltanto poesia, ma il tesoro riposto dell’anima, l’accoglienza di un’alterità amata e assorbita, libro dei libri. Avveramento della letteratura”.Sono contento, è il coronamento di sei anni di lavoro. Una delle domande che mi sono posto, alla quale ho dato solo risposte parziale: perché sentiamo il bisogno di scrivere o far scrivere un testo sulla lapide, sulla immaginetta? Ho pensato che avrei dovuto compiere un percorso per arrivare alla risposta. E poi questo libro lo vedo come un dono dovuto ai morti».
E non soltanto….
«No, c’è anche l’omaggio alla terra, alle radici: i calanchi, che sono parte del nostro vivere. E uno dei temi portanti e che si collega a tutto è il sacro: perché la morte ti fa interrogare sul sacro».