C’è un filo conduttore che lega tutta questa storia: è l’amore. Ma  ciò che ha portato Valerio Elefante e la moglie Francesca Bruno a meritarsi un ambito traguardo nel loro campo lavorativo sono soprattutto la costanza, la determinazione e la ricerca continua della qualità. La “Taverna Nonna vera” che gestiscono a Latronico è una delle belle novità della gastronomia lucana. Ha appena ricevuto la Chiocciola delle Osterie d’Italia 2024 dello Slow food a conferma che il percorso professionale della coppia, sul lavoro e nella vita, è di un certo  valore.

Francesca Bruno e Valerio Elefante della Taverna Nonna Vera

Lui chef e sommelier, lei proprietaria e direttrice di sala, sono giovani ed entrambi napoletani, a Latronico ci sono per amore. Lui del territorio, essendoci in pratica sempre stato, fin da piccolo, perché suo padre, medico, esercitava in Basilicata. Lei quando ha deciso di lasciare Napoli, dove gestiva un ristorante-pizzeria, l’ha fatto per Valerio.

Ma l’amore, come dicevamo, tornerà altre volte in questa storia.

Valerio, qual è stata la vostra reazione quando vi è stato comunicato che al vostro locale era stata assegnata una delle appena quattro che sono state destinate alla Basilicata?

E’ stata una emozione fortissima. Quando ci è arrivata la mail con la comunicazione eravamo in automobile. Ci siamo commossi: sia io che mia moglie. E’ stato il compimento  di un ciclo di tanto lavoro. Una bella notizia  arrivata in un momento particolarmente impegnativo.

Era un riconoscimento che vi aspettavate?

No, era desiderato. Ma inaspettato. Il locale ha avuto una doppia vita: prima eravamo in gestione, sempre a Latronico, sempre nello stesso stabile. Abbiamo smesso di gestirlo con l’avvento del Covid. E per il fatto che nella gestione c’erano alcuni vincoli: ad esempio facevamo sia ristorante che pizzeria. E, pur proponendo una pizza diversa da quelle che si trovano sul territorio, una pizza con impronta napoletana, questa doppia proposta rischiava di ridurre la qualità delle cose che facevamo.

Perché ve la siete meritata, secondo voi, la Chiocciola Slow food?

Penso per la costanza e anche per  la voglia di esprimere idee diverse: abbiamo piatti tradizionali, ma non di stampo tradizionale. Sono rivisitazioni, proposte nuove, fatte con prodotti locali.

Diceva della doppia vita del locale: la chiusura è arrivata con il Covid. Ma poi avete deciso di riaprire.

La chiusura, di quel locale che avevamo solo in gestione, è stata quasi una liberazione per noi. Siamo stati un anno senza lavorare, solo facendo alcuni extra. Avevamo deciso di tornare a Napoli, avevamo vinto il bando “Resta al Sud” quando ci fu proposto l’acquisto dell’immobile. Avevamo quasi concluso una trattativa per un locale a Napoli, la facemmo saltare e decidemmo di tornare a Latronico. Nasce così Taverna Nonna Vera, un atto di amore verso quella nonna che, in qualche modo, ha avuto un ruolo nella mia passione per la cucina.

Come nasce chef Valerio Elefante?

Nasce con il tempo. Ero appassionato di cucina fin da piccolo. Nonna Vera mi raccontava che da bambino le dicevo che avrei aperto un ristorante e che avrei invitato ad assaggiare i miei cibi lei e il nonno. Insieme a mia madre erano due cuoche eccezionali. Io passavo molto tempo con loro e questo mi ha fatto amare la cucina. Il mio percorso professionale, invece, è nato con le scuole del Gambero Rosso; ho fatto uno  stage in un ristorante stellato che mi ha formato anche se lì ho capito che non è quello il mondo  che volevo seguire. Per quasi due anni ho lavorato in un ristorante spagnolo.

Anche questa esperienza è stata vissuta nel segno di un amore…

Infranto, però. Avevo  rotto una storia d’amore e per la delusione avevo deciso di andarmene, di lasciare l’Italia. Ero stato in Spagna, me n’ero innamorato. Mandai il mio curriculum ovunque, nelle città spagnole che mi erano piaciute. Mi  rispondevano tutti che un requisito essenziale doveva essere la conoscenza della lingua. Che io non sapevo. Poi ci si mise il caso di mezzo… Sul web, per effetto di chissà quale algoritmo, mi apparve un annuncio di un ristorante spagnolo a Napoli che cercava personale. Ci andai, mi presero: ci ho lavorato due anni. C’è era lo chef spagnolo, la cucina era spagnola, i prodotti arrivavano dalla Spagna. Ho imparato tanto e ho imparato la contaminazione. Ho proposto anche una versione nostrana del salmorejo: ricotta di capra e pecora di un produttore di Latronico con sopra le alici di Menaica.

Nel vostro menù c’è un bel po’ di territorio.

Conosco bene questo territorio. Ci ho vissuto fin da bambino. Avevo cinque o sei anni: era il luogo delle vacanze estive, venivamo qui per Pasqua e Natale per stare con mio padre. Dal 2011 poi ho cominciato a  lavorare in questa zona: ho avuto un bar, un locale estivo, ho fatto il cameriere in un ristorante della zona. Piccoli lavori, stagionali. Fino a che ci fu proposto questo locale che, originariamente si chiamava  Taverna dei Gesuiti. Era aperto 2002, lo prendemmo nel 2017 e per tre anni è andata bene, tanto che venimmo segnalati su tutte le guide e perfino la Michelin ci aveva contattato, ma fummo costretti a rinunciare alla loro segnalazione perché avevamo già deciso di chiudere l’attività. Tornando al menu conosco bene anche i prodotti del territorio. Ma i nostri piatti non sono quelli della tradizione: sono proposte fatte con i prodotti locali.

Ad esempio qual è uno che non può mai mancare dalle vostre proposte?

Potrebbe sembrare scontato ma è il peperone crusco: immancabile e iperpresente. Abbiamo un menu degustazione dedicato al crusco. Anche un dolce. Con un ragazzo che ha lavorato con noi per un po’ di tempo e che oggi gestisce un ristorante a Salerno  ci mettemmo a studiare un dolce. E’ uno dei 3 dolci che non tolgo mai dal menu: il peperone, il bocconotto di Maratea e la zuppa di latte di Nonna Vera.

Anche in queste scelte ha prevalso l’amore….

Il bocconotto, ad esempio, lo si fa ovunque: a Normanno, in altri paesi. Ma per me quello originale è quello di Maratea, con le amarene. Lo mangiavo da piccolo, quando andavo a passare le vacanze nella casa che mio padre aveva lì. E anche la zuppa dedicata a nonna, che è una crema di latte, è un ricordo della colazione di una volta.

Com’è fare imprenditoria al Sud?

Al Sud, ma direi in tutta Italia è una follia. Per via dei costi, per la burocrazia, per tutte le cose che gravano sulle aziende.

Un’ultima cosa: quale significato ha questo riconoscimento, in prospettiva futura?

Noi siamo settati sulla qualità delle materie che trattiamo e del prodotto che proponiamo. E’ sempre stato il nostro obiettivo, fin dal primo giorno. E questo sarà il faro che ci guiderà anche da ora in avanti.

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