Chi non ha mai visto un palloncino sfuggire dalle mani del suo piccolo proprietario e perdersi nel cielo? E chi non ha mai fantasticato su dove, quel palloncino, una volta scomparso alla nostra vista, vada a finire?
Una risposta, a questa domanda, ha provato a darla Roberto Pietrafesa, un ingegnere di 44 anni, nato a Tricarico, in provincia di Matera ma residente a Monteiasi, in provincia di Taranto.
Lui, quei palloncini, da bambino non li ha mai voluti. Aveva paura di perderli. Così, diventato adulto, ne ha fatto oggetto di studio e di sperimentazione. Per hobby. Li ha lanciati deliberatamente nel cielo e, attraverso un minuscolo trasmettitore radio di soli 4,85 grammi di peso, li ha seguiti, per capire dove andassero a finire. Roberto ne ha fatto un interesse hobbistico vero e proprio, unico in Italia, rarissimo nel resto del mondo.
Con un pizzico di romanticismo, quel progetto – che Roberto, per pura passione, ha realizzato in tre anni di studio ed esperimenti, lo ha chiamato Luisa, come il nome di sua madre.
“Non ho mai reciso il cordone ombelicale affettivo che mi lega a mia madre – spiega l’ingegnere lucano – come credo accada un po’ a tutti gli italiani ma ai meridionali particolarmente. E’ una donna che ha dedicato la sua vita a mio padre, a mia sorella Giovanna e a me, rinunciando letteralmente a tutte le cose belle che avrebbe potuto fare per se stessa. Non ho mai esitato nel dedicare a lei questo progetto ambizioso, poetico, ma irto di difficoltà. Con buona pace di mia moglie Daniela!”.
Quando nasce l’idea del lancio del palloncino?
L’idea nasce dalla curiosità che avevo da bambino nel vedere volar via i palloncini dei bambini alle feste patronali. Mi chiedevo dove andassero a finire. Mio padre mi disse che più in alto sarebbero scoppiati, me non ne sono mai stato del tutto convinto, anche se verosimilmente non si sbagliava.
Perché nasce e da cosa?
All’età di sei anni vivevo nel pacifico quartiere residenziale Enichem di Pisticci Scalo, in provincia di Matera, dove mio padre Vito lavorava come perito chimico. Un giorno, una pattuglia di vigilanza dello stabilimento si fermò per salutare mio papà ed io sentii delle voci provenire dalla radio che avevano in macchina. Chiesi cosa fosse, e la guardia giurata mi disse che era un apparecchio con il quale potevano mettersi in contatto con la centrale. Io rimasi in silenzio, incredulo, la guardia sorrise e mi fece avvicinare. Prese il microfono e chiamò la centrale. Quando da lì risposero, io rimasi folgorato da quello strumento che poteva farci sentire quella voce lontana, e da allora desiderai sempre di poter avere anch’io una radio “da grande”.
All’età di undici anni, poi, un mio zio di Roma mi regalò il cosiddetto “baracchino”, più correttamente da chiamarsi ricetrasmettitore in banda cittadina (27 MHz). Ricordo le chiacchierate con i camionisti che transitavano sulla strada Basentana, che erano sempre gentili di fronte a un ragazzino della mia età, raccontandomi del loro lavoro e delle loro famiglie lasciate a casa in attesa che tornassero a tarda sera o l’indomani e di qualche aneddoto di vita vissuta viaggiando sulle strade del Sud Italia.
Ho sempre rimandato l’acquisto di una radio HF per veri radioamatori, perché a quell’età ci sarebbero voluti due stipendi di mio padre. Dopo la laurea in ingegneria aerospaziale è arrivato il lavoro, poi la casa, poi mio figlio Riccardo. Non appena ho trovato “un attimo di pace” ho deciso che era il momento di adoperarmi per ottenere la patente di radioamatore, sostenendo l’esame presso il Ministero a Bari. E così all’età di 35 anni ho comprato la mia prima radio, appassionandomi in modo particolare delle trasmissioni a bassissima potenza. Una sorta di sforzo per capire fin dove possono arrivare i segnali deboli. Un pomeriggio d’estate del 2011, da Picerno, paese natio di mia madre, riuscii a collegare con un piccolo apparato radio e un’antenna di fortuna un radioamatore di Igaliko, In Groenlandia, a 4600 chilometri, con solo un quarto di watt di potenza, la potenza di una lampadina segna passo che usiamo per non inciampare di notte. La stessa potenza di emissione di uno smartphone. Il dispositivo del pallone che ho realizzato mi ha dato l’occasione di sfruttare la leggerezza del trasmettitore, perché dovendo creare qualcosa di leggerissimo sono stato costretto ad usare un trasmettitore piccolissimo e quindi a bassissima potenza. Solamente 10 milliwatt, quando normalmente un apparato radioamatoriale portatile (quello che le forze dell’ordine hanno nella tasca della divisa) irradia una potenza di 5 watt, cioè 500 volte maggiore.
Cos’è accaduto dopo il primo lancio? Come lo ha seguito? Dov’è finito?
Durante i tre anni nei quali ho sviluppato il progetto ho avuto diverse difficoltà perché nell’ambito dell’elettronica sono partito quasi da zero, essendo la mia formazione universitaria a carattere meccanico. Durante le fasi finali le difficoltà sono aumentate, per cui avevo deciso di mollare tutto. Poi mi sono ricordato che quando si è ad un bivio la scelta giusta è sempre quella della strada più difficile. Per cui ho continuato, anche se un po’ meno motivato rispetto agli inizi. La mattina del 1° Dicembre dello scorso anno era una domenica. Mi sono svegliato e ho detto: oggi faccio un lancio di prova: o la va o la spacca. La scheda elettronica aveva avuto qualche problema di saldatura, per cui non era l’ideale per essere lanciata. Il mio obbiettivo era di far raggiungere al palloncino almeno la quota di galleggiamento, cosa che avrebbe richiesto circa tre ore di salita sotto la spinta di Archimede, nelle quali avrebbe potuto percorrere circa 200 km in orizzontale. Con l’aiuto di mia moglie e mio figlio a pochi metri che riprendeva con la telecamera, abbiamo lanciato alle 11,45 del mattino. Salutando il pallone, siamo scesi subito in casa per cercare di ricevere il segnale radio, ma nulla. A quel punto ho realizzato che probabilmente, durante il lancio, il sottilissimo filo dell’antenna fosse andato spezzato. D’altronde, con il suo spessore di soli 0,1 mm, può sopportare al massimo una tensione di 200 grammi, per cui è molto facile spezzarlo senza accorgersene. E invece, dopo quasi tre ore di silenzio, ecco il primo segnale giungere dalla “verticale” di Gallipoli, a circa 70 km a Sud-Est di Monteiasi. Dopo dodici minuti un secondo segnale, e dopo altri trenta un terzo ed ultimo segnale, poiché il trasmettitore si è era spento per il suo “letargo notturno”, perché a causa del sole ormai basso all’orizzonte e verso il tramonto, i pannelli solari non erano in grado di erogare la corrente elettrica necessaria al suo funzionamento. L’indomani mattina, poco dopo le otto e con mia grande sorpresa, un nuovo segnale, questa volta dal confine tra Egitto e Israele! Il pallone aveva viaggiato tutta la notte, ad una media di 110 chilometri orari, sorvolando la Grecia prima, l’Isola di Creta poi, per dirigersi verso Israele. Nell’arco della mattinata si è poi addentrato n Giordania e infine in Arabia Saudita. A questo punto perdevo nuovamente il segnale. E così tutto il giorno successivo, il 3 Dicembre: silenzio radio. La mattina del 4 dicembre ancora un segnale, che mi lasciava presagire che il pallone fosse andato ancora più lontano. E invece era ancora lì, nel deserto dell’Arabia Saudita, a 600 metri di quota, corrispondenti all’altitudine di un altipiano presente in quel punto. Segno inequivocabile che il pallone era ormai a terra, dopo un volo di ben tremila chilometri: buona la prima! Un vero successo, per quanto il trasmettitore abbia inviato soltanto il dieci per cento dei segnali che avrebbe potuto inviare. Sintomo del suo cattivo funzionamento, ma non abbastanza da non far capire dove fosse.
E’ l’unico in Italia ad aver fatto questo esperimento?
Si, sono l’unico in Italia. Esistono progetti simili al mio in numero esiguo: uno in Germania, uno in Svezia, uno in Romania, uno in Canada e un paio negli Stati Uniti. Il mio trasmettitore però, insieme a quello dello svedese Mikael, è il più piccolo e leggero di tutti. Mai in Italia fino al 1° Dicembre 2019 era stato lanciato un trasmettitore così piccolo e leggero: un quadratino di 2 centimetri di lato e 4,85 grammi di peso! Ho chiesto all’editore Guinness World Records di certificarmi il primato, ma mi hanno chiesto un importo pari a quello di un’automobile di media cilindrata. A quel punto ho preso mia moglie e mio figlio e con una cifra più modesta li ho portati a cena fuori, dove abbiamo festeggiato e dove m’è bastato che fossero loro a “certificarmi” il primato con un brindisi e un sorriso. Ovviamente avevo già informato la comunità dei radioamatori, per correttezza e per capire se vi fossero stati degli esperimenti simili in Italia prima di me, e mi hanno confermato che effettivamente ero il primo.
Quali sviluppi può avere nel quotidiano questa sperimentazione?
Il pallone potrebbe essere l’occasione per testare l’implementazione di sensoristica per il rilevamento di dati ambientali, ad un costo inferiore a quello sostenuto oggi dagli enti che fruiscono di questi dati, oppure per testare nuovi metodi di produzione di energia elettrica per dispositivi a basso assorbimento. Ma, francamente, ho vissuto questo progetto con il solo scopo di sognare e divertirmi insieme a mio figlio, per insegnargli che anche l’elettronica e la matematica non sono materie astratte ma possono essere applicate in tanti modi, e che nella vita può servire anche ciò che non ha un mero scopo materiale. La motivazione nasce innanzitutto da un sogno. La studio e la conoscenza non sono meri nozionismi da mandare a memoria ma sono prima di tutto esperienze emozionali.
Le è mai capitato di farsi sfuggire, da piccolo, un palloncino?
Temevo questa domanda, perché devo confessare che non ho mai chiesto a mio padre di comprarmene uno: avevo paura di perderlo, o semplicemente che si sgonfiasse, e che quindi non rimanesse mio per sempre. Forse lo stesso desiderio che mi ha portato a capire dove vanno: un modo per tenermi sempre in contatto con loro, anche quando sono ormai volati via dalle mie mani.
Quali legami hai con le tue origini lucane?
Sono nato a Tricarico nel 1975 poiché lì c’era l’ospedale più vicino a Pisticci Scalo, dove la mia famiglia viveva e, dato l’impeto col quale decisi di venire al mondo, non lasciai ai miei genitori altra scelta che correre verso presidio più vicino a casa. Ho trascorso un’infanzia serena, in un quartiere residenziale di duemila abitanti, con spazi verdi più gradi di quelli che avremmo potuto desiderare e che ho condiviso con amici speciali come i fratelli Bombardiere. I pomeriggi di gioco trascorsi all’aperto, senza giocattoli, dove il massimo dell’entusiasmo consisteva in una copiosa raccolta di pinoli dall’albero o nella “scalata” del “Cozzo”, una piccola montagnetta d’argilla alta meno di cento metri, a compimento del quale festeggiavamo mangiando i panini e le scatolette del cestino della mensa che i nostri padri portavano a casa. Di quei tempi ricordo la felicità. Il motore di tutto era la curiosità. Molto di quel tempo libero trascorreva cercando di inventarci qualcosa di divertente e di ingegnoso, e l’entusiasmo scaturiva genuino dalla ricerca ancorché dal risultato. Uno su tutti, l’esperimento di usare una busta della spesa messa come zaino, a mo’ di paracadute. Credo sia superfluo raccontare il risultato… l’invenzione di qualcosa che ci consentisse di giocare favorì una genuina sperimentazione che credo sia poi divenuta una virtù.
Da Pisticci Scalo ci trasferimmo a Bernalda, per cercare una dimensione più adatta alle necessità dell’adolescenza. Indimenticabili le estati al mare a Metaponto, da piccoli e da adolescenti quando, senza ancora la patente in mano, attendevamo fiduciosi un passaggio all’uscita del paese, dove transitavano tutti quelli che andavano sulle spiagge.
Visitavamo i nonni materni e paterni nei paesi di Picerno e Sarnelli, quest’ultimo così piccolo che è frazione di Possidente, a sua volta frazione di Avigliano.Dagli abitanti di Picerno ho imparato cosa sono accoglienza e ospitalità. Dagli aviglianesi cosa sia la precisione e la determinazione nel fare le cose.
Dopo la maturità scientifica ho lasciato Bernalda alla volta del Politecnico di Torino, da dove sono tornato nel 2000 con la laurea in ingegneria aerospaziale. Tornato si, ma nella regione limitrofa, in Puglia, prima a Grottaglie e poi a Monteiasi, dove vivo da tredici anni. Mi piacerebbe, nell’ultimo periodo della mia vita, poter tornare a Picerno: è l’unico posto dove avverto una pace interiore.
Ci saranno altri lanci?
Attualmente i lanci del progetto Luisa sono in pausa, perché mamma e papà hanno bisogno di un’attenzione in più. Spero di lanciare LUISA 2 in aprile. Diverse persone, incuriosite dal primo volo di Luisa 1, mi hanno chiesto di poter scrivere il loro nome con un pennarello sui palloncini dei lanci successivi.
Ho pensato a una soluzione che potesse accontentare tutti e, non potendo aggiungere neanche un grammo al peso del sistema, ho deciso che metterò all’interno del pallone una striscia di carta colorata con l’indirizzo web di una pagina sulla quale chiunque potrà registrarsi come Aeronauta dei voli LUISA. Si, gli aeronauti, quei pionieristici aviatori dei palloni aerostatici dei fratelli Montgolfier di fine settecento.
Nella stessa pagina, sulla quale potrebbe approdare chi si imbattesse nel pallone ormai atterrato da qualche parte del mondo, sarà possibile leggere tutti i nomi degli aeronauti ed il loro desiderio affidato al pallone come pellegrino di pace e fratellanza per tutta l’umanità.
L’indirizzo del sito è progettoluisa.it e la pagina di registrazione si raggiunge dal menu “Vola con Luisa”.
Ai tanti ragazzi che mi hanno fermato per strada a Monteiasi o che mi hanno scritto sul web, dico che tutto arriva se ci impegniamo in qualcosa. Ed il mio è stato solo un piccolo esempio. C’è chi nasce fortunato, ma anche chi lo è diventato con spirito di sacrificio e unendo il talento alle occasioni che è riuscito a creare, aprendosi al mondo e prendendosi anche dei rischi. Non amate la forma, ma il contenuto, e siate coraggiosi, perché, come diceva Winston Churchill, il coraggio è la prima delle qualità umane, dalla quale derivano tutte le altre.