Cos’è l’appartenenza? E le radici? Sono i temi sui quali si interroga, con la sua arte – il cinema – Donato Rotunno, giovane regista, sceneggiatore e produttore, nato in Lussemburgo da genitori lucani. Le risposte, Rotunno, le trova nei film che realizza e che produce.

Donato Rotunno, regista e produttore

Ma anche nella realtà quotidiana di una comunità che, necessariamente, “strapazza” quel senso di appartenenza con una contaminazione naturale. “Ogni giorno, parlando, dobbiamo approcciarsi con quattro lingue diverse: il francese, il tedesco, il lussemburghese e poi l’inglese, che è la lingua del lavoro”, racconta il regista.

E poi c’è il dialetto lucano, quello dei genitori, della terra che ha sempre sentito come “terra sua”.

Tutto questo fa da sfondo a “Io sto bene”, il film che ha presentato fuori concorso a settembre alla rassegna romana “Alice nella città” e, ancor prima, al docufilm “Terra mia, terra nostra”.

Ma Donato Rotunno da oltre venticinque anni è anche un produttore di film. E, proprio nei giorni scorsi, un film della sua casa di produzione è stato premiato con il Cesar, l’equivalente francese del David di Donatello. E, con lo stesso film “Due” dell’italiano Filippo Meneghetti, è stato in corsa per la nomination agli Oscar 2021, arrivando nella quindicina finale, in rappresentanza della Francia.

Partiamo da questo aspetto della sua professione: come produttore ha ricevuto  un importante riconoscimento pochi giorni fa.

Faccio il produttore da 25anni, ho avuto un buon numero di premi. Questa volta in coproduzione abbiamo avuto  un Cesar a Parigi, che è l’equivalente del David di Donatello Italiano, come miglior prima opera. Con “Due” siamo rimasti in competizione per le nomination agli Oscar fino agli ultimi 15 candidati. Questo è ovvio, ci ha donato una grande felicità.

La sua casa di produzione si chiama Tarantula. E’ un omaggio alle sue radici?

No, è una scelta nata un po’ per caso, 26 anni fa quando abbiamo messo in piedi la casa di produzione. C’era la volontà di avere un nome e un logo molto forte, imponente, che si facesse notare e ricordare: ecco il perché del ragno e dei colori rosso e nero, molto presenti. Anche se in questi anni ci siamo orientati verso altre cose, il nome e il logo sono rimasti.

Si sente più regista o più produttore?

Renato Carpentieri

Con Tarantula ho prodotto quasi 35 opere, lungometraggi. Cercare, scoprire e trovare gente che puoi accompagnare con strategie e con finanziamenti e con un supporto  artistico fa sempre piacere. Va al di là delle proprie capacità di creare. Essere produttore creativo, come faccio da sempre, è una parte del mio mestiere che mi fa piacere, che faccio molto volentieri e con la quale mi posso sfogare. Come regista i momenti sono intimi, ho l’opportunità di scegliere dei soggetti che mi sono vicini, che sento miei, come nell’ultimo progetto che ho presentato a Alice nella città a Novembre che si chiama Io sto bene con Renato Carpentieri, Sara Serraiocco, Alessio Lapice.  Dopo Roma il Covid ci ha frenati ma per il 2021 abbiamo in programma diversi momenti di festival, di rilancio del film, di incontro reale con il pubblico. Saranno bei momenti. Quando ho l’opportunità, ogni tre o quattro anni di fare un film proprio, è anche un momento bello e molto intimo.

Il film affronta il tema dell’emigrazione, che in qualche modo la riguarda da vicino.

Sara Serraiocco

Chi pensa che la tematica si  fermi negli anni Sessanta per gli italiani si sbaglia. Nel nostro Paese, ma anche altri Paesi del Mediterraneo, questa migrazione è permanente. Racconto l’incontro tra un personaggio più anziano, come Renato Carpentieri e una ragazza che parte dall’Italia oggi, interpretata da Sara Serraiocco. Queste tre generazioni che si incontrano e le cui vite, le scelte, ruotano intorno alle stesse domande, “perché andare via?, dove andare?, dove posare le valigie? per avere possibilità di vita. Le ragioni sono spesso economiche ma non soltanto. E’ un omaggio alla storia dei miei genitori, che sono partiti dall’Italia negli anni Sessanta.

Se le domande sono identiche per le tre generazioni, le risposte , le aspettative di ieri sono le stesse di oggi?

Spesso sì, oggi è più complicato definire le domande. Per i miei, quando partiti, c’era una evidenza, la fame, una fame fisica. Le ragioni per partire erano non solo nel  cervello ma  nello stomaco, era una necessità di base. E la risposta era molto più evidente. Oggi c’è sempre la necessità economica ma arriva dopo, ci sono domande in più sul benessere, la volontà di felicità, il sentimento di appartenenza, cose che forse i miei genitori  non si sono posti: non c’erano il tempo e il posto necessari per trattarli. Oggi se un giovane di 24 anni parte dall’Italia, è mosso da una situazione psicologica più complessa.

Il tema dell’appartenenza l’ha trattato in un documentario “Terra mia, terra nostra”.

L’appartenenza è un sentimento che puoi continuare ad alimentare in te. Non è un necessariamente un posto, un territorio. E’ un luogo che ti porti dentro, un luogo dell’anima. E per appartenere a un luogo lo devi alimentare. Tu, i tuoi genitori, la cultura, la lingua, il cinema e il teatro: tanti aspetti che  alimentano il senso di appartenenza e la fanno crescere. Poi c’è chi non ne ha bisogno. C’è chi posa le valige da qualche parte e chiude un capitolo della sua vita che è il capitolo delle generazioni interiori. Ma nella mia esperienza, soprattutto trattando “Terra mia, terra nostra” ho capito che anche nelle seconde e terze generazioni, quel filo che ti lega all’italianità, l’illusione dell’Italia è difficile perderla completamente. Alcuni, anche con l’età che avanza, prendono il tempo di tornare indietro, di guardare le proprie radici. Tagliare tutto in maniera diretta, repentina, diventa complicato.

Qual è il suo luogo del cuore delle sue origini?

Mia madre è di Genzano di Lucania, mio padre di Banzi. Sono due paesi, piccoli, a poca distanza tra loro,  in provincia di Potenza.

Lei è nato in Lussemburgo: c’è stata una prima volta che ha avuto l’impatto fisico con le radici della sua famiglia?

Le radici le ho sempre portate dentro. Con l’Italia c’è stato un legame, mai interrotto. L’idea di mio padre era sempre quella di tornare, costruire la casa, riallacciare i legami con la terra e con la famiglia che ancora oggi sono forti. Il dialetto rimane nell’aria, mio figlio Romeo Libero  parla il dialetto lucano meglio dell’italiano.

C’è una parola del dialetto lucano che usa più spesso?

“E vabbuò”, è una espressione che  viene fuori spesso, specie nei momenti più intimi, familiari. In Lussemburgo parliamo normalmente  quattro lingue. Può capitare di iniziare una frase in francese e la finisci in tedesco, a seconda della persona che hai davanti, con chi parli. L’italiano è presente, l’inglese è la lingua del lavoro. Ma ci  sono quei piccoli momenti in cui dici: ah, queste sono parole dell’anima, della mia terra. Mia madre ha 82 anni, mi piace ascoltarla parlare in dialetto, sono momenti rassicuranti. E’ un mondo che piano piano si perde.

Chi sono i suoi ispiratori del cinema che fa o che produce?

Complicato rispondere. Ladri di biciclette  è un film che porto nel cuore. Con quel film hai raccontato tutto:  la disperazione di un padre per sopravvivere, lo sguardo di un ragazzo, l’amore, la fragilità di una economia e la sopravvivenza dell’etica, della reale, del chi essere: uomini o caporali? La cosa importante è questa. Alla fine di una vita di un percorso ti guardi nello specchio e dici: ma questo cammini che ho fatto, com’è? Sei rimasto più o meno quello che pensavi di essere oppure hai svenduto te stesso? Sono le domande che ti poni tante volte. Ho la fortuna di fare un mestiere nel quale mi ritrovo spesso a confrontarmi con queste domande. Non è solo lavorare, è vivere.

 

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