Avete presente la raffigurazione pittorica dell’Annunciazione? Su questo evento biblico si sono cimentati i più grandi maestri dell’arte. Tutti – o quasi – allo stesso modo: la Vergine intenta, prima a filare o ad attingere acqua alla fonte, poi, dal IX secolo, a leggere un libro aperto su un leggìo o chiuso col dito fra le pagine per non perdere il passo, mentre l’Angelo arriva ad annunciarle che diventerà madre. Ma Antonello da Messina dipinge una scena differente. Maria è sola nella notte, non c’è l’Angelo. Ma il libro sì. La sua Annunciata, come tutte le altre ritratte dai pittori, ha un libro davanti a sé, su un leggìo, aperto. Già. Ma cosa legge in quel momento, quella fanciulla che presto diventerà la madre del figlio di Dio?

Se lo è chiesto anche il professor Michele Feo, che ne ha fatto oggetto di una ricerca e poi di un libro, Cosa leggeva la Madonna? Quasi un romanzo per immagini, pubblicato da Polistampa di Firenze per l’Accademia Toscana «La Colombaria».

Michele Feo, nato a Banzi, piccolo centro in provincia di Potenza, nel 1938, allievo della Scuola Normale Superiore di Pisa, è stato per mezzo secolo docente di Letteratura e Filologia medievale e umanistica nelle Università di Pisa e di Firenze. Nel 1985 ha scoperto, nella allora DDR – la Germania dell’Est – una corrispondenza poetica, inedita e sconosciuta, del Petrarca. Ha fondato e diretto la rivista «Quaderni petrarcheschi», ha presieduto la Commissione per l’edizione nazionale delle opere di Francesco Petrarca e il Comitato per le celebrazioni centenarie del 2004. Ha pubblicato i volumi Codici latini del Petrarca nelle biblioteche fiorentine (Firenze 1991), Petrarca nel tempo (Roma-Firenze 2003), Térata (Messina 2009), Persone (Santa Croce sull’Arno 2012), Nascon fiori dove cammina (Pontedera 2015). Nel 2004 è stato insignito dal presidente della Repubblica dell’onorificenza di Grande Ufficiale al merito della Repubblica.

Ha due grandi amori, Michele Feo: uno per il Petrarca e l’altro per la ricerca. E li unisce con la scrittura, oltre che con una visione umanistica della vita. Da tutto questo nasce il suo ultimo libro.

Professor Feo, cosa leggeva la Madonna?

Premetto che questo tema impressiona i miei amici che sanno che mi professo ateo, anche se da bambino ho fatto il chierichetto, come tanti al Sud. Mi chiedono, anzi mi obiettano: come mai ti metti a studiare la Madonna? Rispondo che ci sono arrivato dal mio mestiere. Nei dipinti la Madonna sta quasi sempre a leggere. Un giorno mi sono chiesto: perché legge? cosa legge? Dopo aver cercato, analizzato e decifrato centinaia di raffigurazioni, mi sono reso conto che Maria legge sostanzialmente la propria storia. La storia di una predestinata, contro la sua stessa volontà, a risarcire il peccato originale dell’uomo. Dal libro sacro che ha davanti a sé apprende che verrà una vergine, che genererà un bambino. Comincia a sospettare di essere lei quella vergine. Arriva l’angelo, lei si schermisce, l’angelo la incalza, alla fine lei si piega alla volontà di Dio. Questo fa scattare in me un altro pensiero: il nostro destino non lo scegliamo, ci viene dato dalla sorte. Nasci povero e devi lottare per vivere, nasci figlio del re e devi fare il re volente o nolente. In ogni caso devi fare i conti col tuo destino. Lo hanno scoperto i greci con la tragedia: la lotta dell’uomo contro il destino, che finisce con la sua sconfitta. L’uomo perde davanti al destino, ma può vincere moralmente. Questa è la storia della Madonna: contro la sua volontà subisce un destino che non voleva. Aveva 12 anni, voleva restare bambina, giocare. Le dicono che deve fare un figlio, addirittura il figlio di Dio. Le dicono che il figlio sarà importante, ma non che morirà in croce. Da qui si sviluppa una ricerca, che ambisce a percorrere tutta la letteratura e l’arte europea, ma anche la immensa fortuna di questa storia presso gli strati popolari più semplici, che vedono in lei la madre di tutti e ne fanno un archetipo antropologico che assorbe e supera anche le divinità femminili della civiltà mediterranea pre-cristiana. A questo punto davvero gli aspetti ‘romanzeschi’ dilagano, con la descrizione della vita quotidiana della famiglia di Giuseppe, l’educazione del figlio, l’insegnamento della scrittura e della lettura, i deliziosi giochi d’amore fra la madre e il bambino, e la persistenza nella lettura di un libro. Il destino finisce per compiersi, il figlio muore sulla croce e Maria scopre cosa significa esser madre. I discepoli la poseranno sul letto di morte col libro in grembo e finalmente la madre sarà risarcita ascendendo al cielo, dove sarà accolta dal Figlio come la sposa del Cantico dei cantici. Secondo Andrea Mantegna in Paradiso la madre diventa bambina ed è tenuta sulle ginocchia dal Figlio. È una conclusione bellissima di una storia bellissima. Tutti i bambini sognano di potere un giorno invertire i ruoli e tenere in braccio la mamma. Ecco dunque uno dei motivi di attrazione per un laico di una storia che non è solo religiosa, ma interpreta vicende emozioni e desideri, gioie e dolori di tutti gli uomini. Per dirla con le parole di un poeta della mia terra, Albino Pierro, questo per me è nu belle fatte, una favola bella, di quelle che si raccontavano davanti al focolare. In questo cammino ci sono in realtà tante altre storie particolari: Cosa va a dire l’angelo? Ci sono nell’annunciazione più angeli e perché? Ci sono più libri? La ragazzina Maria vive in una casa lussuosa come una signora rinascimentale o in una miserabile catapecchia? Antonello da Messina dipinge l’Annunciazione senza angelo: perché? È arrivato davvero l’angelo o Maria se l’è immaginato? Letteratura e pittura si sono appassionati alla storia della nascita e della crescita del bambino: Maria madre di Dio diventa la madre che allatta il piccolo, e intanto vorrebbe continuare a leggere, e poi insegna al bambino a leggere e a scrivere. Insomma la storia esce dalla religione e diventa la storia di tutte le madri qualsiasi e senza nome, che possono essere ricche o poverissime, che – come ho scritto nel libro a p. 222 – «su questa terra nascono inter faeces et urinas, attendono il loro angelo messaggero, generano nel piacere e nel dolore, allevano i loro cuccioli e li piangono amaramente o sono da essi amaramente piante». Attraverso questa storia – ripeto – la Madonna diventa la madre di tutti gli uomini, l’avvocatessa di tutti i disgraziati, e la sua storia sacra diventa una storia profana, che ha una fortuna sterminata, e in certa misura intacca il primato stesso di Cristo. La chiesa cerca di contenere questo processo, ma non ci riesce, e la vicenda di Maria diventa una rappresentazione della vita civile: Maria stessa rischia di diventare la divinità più forte di tutto il cristianesimo. La nostra Madonna non è solo Maria di Nazareth, è anche Iside, Cibele, Venere: assorbe, metabolizza, scalza tutte le divinità femminili pagane. Ma la Chiesa non la fa salire a livello della Trinità, la mantiene a livello di donna umana: una divinità che è anche essere umano. Tutto questo mi ha affascinato: ci ho sentito il destino di una santa ma anche e soprattutto di una donna.

Tutto questo è frutto di una ricerca. Adesso è immerso in una nuova?

La ricerca è un divertimento: il bello della ricerca è nel cercare, non nel trovare. A volte è frustrante. Ma può capitare di trovare, come mi è successo, un pezzo sconosciuto, del 1336, di Petrarca in Germania. Fortuna? Certo. Ma se non fai un’ipotesi, anche avventurosa, non trovi nulla. Quelli che a Banzi, il mio paese natale, scavano e portano alla luce importanti reperti archeologici è perché sono arrivati alla convinzione che anticamente era una città importante. Sa quanto hanno scavato? Ottocento tombe. Hanno scoperto spesso solo ossa, ma poi si sono trovati davanti a tre splendidi vasi. Se non investi nella ricerca, nella curiosità, non arrivi a niente. I milioni di giovani che stanno nei laboratori a studiare le cellule per cercare una soluzione a Aids e cancro perdono la loro vita? No. Non è così. La società non può farne a meno. Ha bisogno anche di persone che fanno il lavoro apparentemente improduttivo e inutile della ricerca.

Se sono immerso in una nuova ricerca? Sì, è così. Oggi, alla mia veneranda età, non ho tirato i remi in barca e continuo ostinatamente a lavorare. Petrarca non mi basta più. Non intendo né dimenticarlo né tradirlo. Ho pronto un libro su Petrarca e la favola, che è il più povero dei generi letterari: Petrarca diceva di non praticarlo e invece io dimostro che percorre tutta la sua opera, come una sorta di brutta coscienza che riemerge continuamente e lo riporta al rapporto rimosso con la gente comune, con la cultura popolare, con le favole dei bambini, con le leggende e i miti, con la letteratura bassa. Ma accanto a questo Petrarca apro spazi sempre più generosi per la tradizione cristiana: San Francesco e la storia di una Bibbia monumentale costruita a Pisa con le libere offerte dei cittadini, ricchi e poveri. E anche le arti figurative mi chiamano, mi ferve dentro un libro con la soluzione (spero) del mistero della Tempesta di Giorgione.

Ha insegnato a Pisa, dov’è arrivato da studente, e a Firenze. Partiamo dalle origini.

Sono partito da bambino dalla Lucania, dove ho passato i primi anni di vita. Ma della Lucania non conoscevo quasi nulla. Vivevo a Banzi e non avevo mai visto né Acerenza né Venosa, due famose cittadine che erano a due passi dal mio paese. Acerenza, nido di aquila, la vedevo svettare e sfumare nel cielo a pochi kilometri. Noi bambini giocavamo nella polvere, nelle acque cristalline del ruscello cantato da Orazio, nel bosco misterioso, nell’orto fruttifero del nonno. Stavamo ai margini del mondo, ci mancava tutto, ma non sentivamo il bisogno di alcunché. Non c’erano macchine, non c’era la radio, solo ogni tanto arrivava un postale, che portava la corrispondenza e trasportava qualche viaggiatore. Ma era terra di emigrazione verso le Americhe, da cui si poteva tornare richiamati dall’amore per la famiglia, o dove si poteva perdersi per sempre. Sono migrato anch’io con la famiglia ad Altamura in Puglia, dove ho fatto tutte le scuole. Mio padre, operaio delle ferrovie, si era battuto per il trasferimento, con lo scopo preciso di avvicinarsi a una città dove i figli potessero andare a scuola. Da Altamura a Pisa, dove sono rimasto.

Com’è arrivato a Pisa?

Era il 26 ottobre 1958: sono arrivato a fare il concorso alla Normale. Ero terrorizzato, gli occhi sbarrati, un cappottone addosso, come Totò e Peppino quando arrivano a Milano a caccia della malafemmina. Vinsi il concorso in Normale, perché gli esaminatori dovettero valutare più quello che potevo fare che non quello che sapevo. A Pisa mi sono laureato, ho fatto l’assistente e il professore incaricato. Vinto nel 1980 il concorso per ordinario, sono passato a Firenze.

Perché decise quel percorso di studi ?

In realtà cominciai con la filologia classica. Nei nostri licei, al Sud, non riuscivamo a studiare neppure la Seconda Guerra Mondiale, pur avendola vista passare davanti agli occhi. Il programma si fermava alla prima, 1918. Poi silenzio. La letteratura a malapena arrivava a Pascoli. Toccare la modernità era scandaloso. Ma eravamo preparati sul mondo classico, la nostra cultura era quella. La modernità era cosa lontana. Arrivai all’università con ambizioni letterarie, contro il parere della famiglia che mi voleva ingegnere, e decisi di impadronirmi del mondo classico. Poi piano piano me ne allontanai, più per incompatibilità coi docenti che con le discipline. Se avessi incontrato subito Antonio la Penna, un professore meridionale, uomo di grande umanità, militante di sinistra, storico filologicamente ferrato e nello stesso tempo pervaso da una forte coscienza civile, forse sarei rimasto nella filologia classica. Cercai altre strade e mi trasferii nel Medioevo e nell’Umanesimo, che mi sembrarono età tutt’altro che buie e tenebrose, portatrici invece di una cosmica spiritualità, di un soffio di amore e di battaglia, ansiose di bellezza. Non avevo capito bene che quella era civiltà cristiana nata sulle radici della pagana. Alla Normale arrivò un professore che mi piaceva. Seguii le sue lezioni anche se ero già laureato. Lui capì che c’era in me qualcosa di buono e mi promise, se ne avesse avuto l’opportunità, un posto di assistente. Era un petrarchista Guido Martellotti, persona saggia, mite, poco accademica. Per me fu una congiuntura delle stelle. Cominciai a studiare la figura dei contadini nella letteratura italiana e mi imbattei in un passo in cui Petrarca li maltrattava. Ne parlai in un seminario di La Penna, lui fu impressionato e mi chiese di approfondire. Era il 1967-68, un tempo in cui l’università italiana era in ebollizione. Il mio articolo, pieno di fiamme e fuoco contro le ingiustizie sociali, fu pubblicato nella prestigiosa rivista di La Penna. Ma non capii lì per lì che ero stato catturato come una mosca in una tela di ragno. Quella tela era il mondo del Petrarca. Certo, è una figura che incute rispetto e perfino un po’ di paura, non ispira di colpo simpatia; ma se ci si avvicina troppo, si finisce dentro la sua tela e non se ne esce più.

Ma cos’ha Petrarca che l’affascina così tanto?

Petrarca è tutto ciò che non sono io: lui è un grande intellettuale, ha avuto tutte le fortune, è riuscito a tenere testa a imperatori, a principi, a comandanti di eserciti, a papi. Ha avuto un successo immediato in tutta l’Europa, ha scalzato perfino l’assoluto principato di Dante. Davanti a una figura così si resta incantati. Ci si chiede come abbia fatto. Ti rendi conto che ci sono in lui cose “vive”, che si possono riassumere nella lezione umanistica, di cui oggi come mai si sente il bisogno. Io sono radicato nella cultura umanistica, che considero la più grande espressione della cultura italiana, quella con cui abbiamo dominato l’Europa per due secoli, producendo arte e cultura, filosofia, architettura, poesia, anche se eravamo sgangherati politicamente. Questo era l’Umanesimo: rifondare la natura dell’uomo dentro un senso profondo di quella che è l’umanità, la formazione dell’uomo poggiata su alcuni principi, a cominciare dalla dignità, fino al rispetto di tutti, degli amici e dei nemici, alla critica delle fonti nel mestiere di storico e di politico, alla necessità di verificare e diffidare, al principio della ricerca disinteressata. Si fa fatica a trasmettere tutto questo ai giovani oggi. L’obiezione continua sta nel pragmatismo e nello sciocco utilitarismo di corte vedute della domanda: A che ti serve?

Si può recuperare questo terreno?

Le dico una cosa scandalosa: credo che il mondo vada avanti perché c’è una strettissima minoranza che crede in questi valori. C’è un principio della filologia, convalidato anche da Piero Calamandrei sul piano giuridico: messe a confronto le testimonianze, una può valere più di mille. Un principio da tenere in considerazione anche oggi, quando il pensiero di un intellettuale, di uno studioso, basato su ricerca e confronto, viene messo in discussione dall’opinione contraria della maggioranza che, magari, si basa su luoghi comuni. La filologia è l’asse portante dell’Umanesimo, la verifica delle fonti, il controllo scientifico di quel che si afferma e il dubbio metodico. Non è solo un meccanismo che si usa nella ricostituzione dei testi. È un modo di vivere. Chi non paga le tasse non è filologo, chi passa col rosso non rispetta le regole. Vale per tutta la via sociale. La nostra struttura di vita, la grammatica non è cosa ristretta solo alle regole del parlare e dello scrivere. Chi non impara la grammatica a scuola poi non impara neppure la grammatica della vita (il buongiorno, il rispetto per gli altri, il metodo democratico ecc.). Purtroppo nessuno insegna più i principî della grammatica del vivere civile. Ai bambini occorre insegnare che, come non si può sbagliare il verbo, così al semaforo non si può passare col rosso.

Che rapporto ha con le sue origini?

Un rapporto difficilmente definibile: a un certo momento avevo il desiderio forsennato di andare via. Ce ne dobbiamo andare, dicevo a un mio amico col quale studiavo: in un luogo dalle praterie sconfinate o in una città con i merli. Con quell’amico sono poi approdato a Pisa (e lui fa il medico). La fuga dal mio paese è stata una sofferenza. Ma Pisa è stata una città accogliente: piccola, colta e aperta al mondo. In Pisa non mi sono rintanato. Da questo porto sicuro e confortevole sono andato per le vie del mondo: Francia, Inghilterra, Polonia, Germania, Spagna, Cecoslovacchia, Grecia, Giappone, Danimarca, New York. Ma soprattutto la Germania è diventata una mia seconda patria di elezione, ci ho trascorso quasi tre anni, e la confidenza con la grande tradizione culturale di quel paese mi fa sentire veramente europeo. Ma ha sempre covato l’amore non risolto col paese natìo. Una volta laureato mi sono chiesto: Che faccio? Torno, non torno? Mi riemergeva nella memoria la casa di mio nonno, senza riscaldamento, con pochissimo spazio per uomini e bestie, oppure il mio Liceo dove il vecchio allievo coi vestiti rattoppati poteva tornare da professore. Ma non sono riuscito a sradicarmi da Pisa: perché Pisa, da fauno che ero, mi aveva fatto diventare uomo. Eppure quando sono diventato assistente alla Normale, piangevo. È incomprensibile oggi ai giovani assillati dalla disoccupazione e dal precariato, ma io in quel momento sentivo che morivano tutte le mie radici. Da lì è nato un desiderio di nostalgia terribile, di tornare, ridare qualcosa. Per la nascita della mia bambina pubblicai una raccolta di canti popolari di Banzi; ogni tanto devo scrivere il necrologio per i miei morti e riemerge sempre in essi un frammento di autobiografia; la piazza del paese reca sotto il monumento ai caduti un’epigrafe inneggiante alla pace dettata da me; durante gli anni delle celebrazioni petrarchesche ho portato a Banzi una mostra; ho restaurato la casetta nella quale sono nato. Ma tutto questo è come un amore senza possesso. Ora ho momentaneamente messo il Petrarca in stand-by per tuffarmi dentro la storia dell’Abbazia di Banzi: un libro l’ho già scritto (La relazione bantina di Arcasio Ricci (1634), Roma 2018). E vorrei affrontare un altro tema: la sorte dei beni sterminati dell’Abbazia, dal momento in cui le leggi antifeudali dei rivoluzionari napoleonici, li hanno espropriati; contro le leggi e contro le lotte nobilissime di menti illuminate quei beni sono finiti nelle mani dei latifondisti anziché dei poveri. Vorrei ricostruire questa storia, perché Banzi l’ha vissuta in modo terribile: i rivoluzionari che dovevano attuare la rinascita del Mezzogiorno hanno finito per distruggerlo, e questo racconto vorrei che fosse l’ultimo dono alla terra che mi ha dato i natali e che continua a produrre in me un sentimento di nostalgia e anche un senso di colpa per averla lasciata.

Con tutta l’ammirazione e l’amore per Gramsci, non sento più l’urgenza di essere un intellettuale integrato. Ma si ascolta ancora in giro l’invito: «Vieni con noi». Quell’invito rigettarono già meridionalisti come Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, Carlo Levi e Guido Dorso. Oggi quella integrazione nelle strutture di un partito ha fatto la sua storia e potrebbe persino produrre guai. È valida invece più che mai la necessità per gli intellettuali, e per il loro ceto del piano inferiore che sono i professori, di essere integrati in una visione del mondo più ampia della propria casa, attenta a realizzare il bene e la felicità di tutto il genere umano, conservando tuttavia, come diceva Ernesto De Martino, un villaggio nel cuore.

 

 

 

1 COMMENTO

  1. Caro Emilio Chiorazzo, è passata mezzanotte da un po’, apro per caso il computer e trovo l’intervista di cui mi ero dimenticato. La leggo e mi meraviglio di me stesso. Mi è piaciuta la colloquialità senza tutte le rifiniture retoriche, che poi vuol dire verità. Spero di conoscerti personalmente e aver modo di approfondire i rapporti, nella speranza che diventino amicizia, magari tramite il grande venditore di fiori di Genzano. Sarò a Banzi dopo Pasqua. Intanto grazie e auguri.
    Pisa, 11.2.2020, ore 01:02

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